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BLASFEMIA

Afghanistan, vittima della legge nera

Afghanistan, una ragazza accusata di aver dissacrato il Corano viene linciata dalla folla. Il suo funerale diventa una protesta delle donne. Resta il fatto che in Afghanistan c'è ancora la pena di morte per la blasfemia. L'Italia ha aiutato Kabul a rifarsi un sistema giudiziario, ma la legge nera resta.

Esteri 23_03_2015
Funerale di Farkhunda

Kabul, si è celebrato ieri un funerale in cui, a portare il feretro, contrariamente alla tradizione, è un gruppo di donne, alcune delle quali non portano il velo e nessuna in burqa. Solitamente sono solo uomini che portano il feretro, indipendentemente da chi sia il caro estinto e le donne restano in disparte. Ma questo non è un funerale qualunque. Nella bara c’è il corpo di Farkhunda, una donna che è stata linciata dalla folla e bruciata sul greto del fiume Kabul, accusata sommariamente di dissacrazione e distruzione di una copia del Corano. Una sentenza capitale per blasfemia, eseguita dalla folla e non dallo Stato, come spesso avviene nel vicino Pakistan.

La notizia vera è la reazione delle donne di Kabul, a voler ben vedere. Sotto il regime talebano alle donne non era neppure permesso uscire di casa se non accompagnate da un maschio di famiglia, non potevano neppure essere visitate direttamente da un medico, non potevano mostrare il volto, né un solo centimetro di pelle, né lavorare, né studiare. Questa forma totale di segregazione tuttora rimane in molte regioni dell’Afghanistan, specie nel Sud e nell’Est, sia nelle regioni controllate dalla guerriglia talebana, sia in quella in cui a farla da padrone sono corti islamiche e consigli degli anziani che applicano la shariah e le leggi tradizionali. Un funerale tutto al femminile, per celebrare l’ingiusta morte di una donna, è dunque un gesto di protesta clamoroso. Un comitato popolare, promosso dagli stessi attivisti presenti al funerale, ha posto una taglia di 5000 dollari (Usa) per chi consegna i colpevoli alla polizia. Il presidente Ashraf Ghani ha disposto la costituzione di una commissione di indagine di alto livello formata da giuristi, studiosi dell'islam, esponenti di movimenti femministi e giornalisti. A loro ha affidato la responsabilità di “indagare sull'incidente in modo appropriato e tenendo presenti le leggi afghane, presentando quindi il suo rapporto al palazzo presidenziale”. Tuttavia, la sua non è una condanna al delitto religioso. Non condanna il fatto in sé: uccidere un uomo per blasfemia è legge anche in Afghanistan. Ghani si limita, semmai, a condannare il modo di far giustizia: “Nessuno può trasformarsi in un giudice e punire i cittadini con un comportamento ripugnante e arbitrario contrario alla Legge islamica e alla giustizia”.

Il secondo aspetto di questa drammatica vicenda, infatti, è proprio la legge sulla blasfemia. Nel 2008 Sayed Parwez Kambaksh, giornalista, era stato condannato a morte per aver “diffamato l’islam”. La prova era una sua confessione estorta sotto tortura, secondo la difesa. Il giornalista venne comunque graziato ed esiliato per volontà dell’allora presidente Hamid Karzai. Nel 2003 c’era un precedente di una duplice condanna capitale per altri due giornalisti, che però erano riusciti a fuggire prima della sentenza. E poi va ricordato il caso di Abdul Rahman, l’uomo arrestato e condannato a morte per oltraggio all'islam, non perché blasfemo, questa volta, ma perché si era convertito al cristianesimo pubblicamente. “Che la gente lo faccia a pezzi” aveva sentenziato una corte islamica. Fortunatamente il caso venne giudicato da un tribunale civile e grazie alla pressione diplomatica del nostro governo, Rahman venne scarcerato (sulla base di vizi di forma) e trasferito in Italia.

Farkhunda è stata meno fortunata delle precedenti vittime della legge nera. Lei non ha neppure potuto difendersi in un processo. Braccata da una folla inferocita fuori dalla moschea Shah-Du-Shamshaira, nella capitale afgana, è stata letteralmente “fatta a pezzi” dalla gente, a colpi di pietre, mattoni e bastonate, il suo corpo è stato trascinato fino alla riva del fiume Kabul e dato alle fiamme. Mentre si compiva questo atto di “giustizia religiosa sommaria” i passanti curiosavano e filmavano con i cellulari, tecnologia all’ultimo grido per diffondere un messaggio arcaico e brutale. La polizia, presente sulla scena, si è limitata ad assistere al linciaggio e al rogo, come mostrano anche diverse fotografie scattate da testimoni. Poi gli agenti hanno disperso la folla, ma a delitto già avvenuto.

Brucia il corpo di Farkhunda (e la polizia sta a guardare)

Ora il governo promette indagini, come abbiamo visto, ma intanto una donna è stata condannata a morte senza processo sotto il naso delle autorità della capitale. L’accusa di blasfemia era, tra l'altro, anche infondata: “Farkhunda era completamente innocente”, dice il generale Mohammad Zahir, incaricato delle indagini dal Ministero dell’Interno. In un primo momento, a delitto appena avvenuto, i genitori della ragazza avevano dichiarato che fosse affetta da una malattia mentale che la rendeva incapace di intendere e di volere. Solo dopo un giorno si è saputo, da altri parenti, amici e colleghi della donna, che studiava per diventare insegnante, che Farkhunda non fosse affatto malata, ma semmai "troppo" emancipata. I genitori hanno parlato di malattia mentale per paura di subire loro stessi rappresaglie, a riprova del clima di terrore che grava su Kabul, sulla più sicura delle città afgane.

Il caso di Farkhunda ci riguarda da vicino, molto più di quanto non pensiamo. Infatti, i codici della giustizia afgana  sono stati riformati sotto la supervisione dell’Italia, la polizia afgana, che ha assistito impassibile al linciaggio, è addestrata dai nostri carabinieri nell’ambito del programma Eupol e sempre l’Italia ha speso 1 milione e mezzo di euro, dal 2011 ad oggi, per il programma di “Miglioramento della sicurezza, dei diritti e dei servizi di assistenza legale per la popolazione afghana”, fra cui, come leggiamo nel sito della Farnesina un programma specifico contro la violenza sulle donne: “la creazione di una unità specializzata nella difesa delle donne vittime di violenza, la Violence Against Women (Vaw) Unit, già istituita presso la procura di Kabul”.

Sarebbe ingiusto affermare che nulla è cambiato dai tempi dei talebani e che il nostro sforzo è stato totalmente inutile. Passi avanti sono stati fatti, anche nel cambiamento della mentalità, come dimostra quel feretro portato da donne a volto scoperto. Giusto per citare un dato significativo, dopo la fine della missione Isaf, frequentano le scuole 9 milioni di scolari e studenti, il 40% dei quali sono ragazze. Ai tempi dei talebani, fino al 2001, erano solo 800mila di scolari e gli studenti, potevano andare solo nelle madrasse talebane. E le donne non potevano neppure avvicinarsi ai libri.

Il problema, però, è nel contenuto, più che nella forma. Possono essere riformate le istituzioni, ripristinati tribunali civili, riaddestrata la polizia, istruita una larga fetta della popolazione, ma non cambierà radicalmente nulla se nella società afgana vige la convinzione che un blasfemo (o un apostata) deve essere condannato a morte. E che, se il (presunto) blasfemo in questione è di sesso femminile, non merita neppure un processo. Nemmeno una riforma profonda delle istituzioni afgane può porre fine a questo sopruso, perché la legge nera sulla blasfemia è nel cuore della società islamica dell’Asia meridionale, in Pakistan, così come in Afghanistan. Finché non ci sarà una riforma nella coscienza, finché non vi sarà una rivoluzione culturale, finché non si affermerà l’idea che una vita umana è sacra e una persona gode di diritti inalienabili, l’Afghanistan, con i talebani o con un governo democraticamente eletto, continuerà a restare un cuore di tenebra nel cuore dell’Asia.