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Africa, non è il denaro che manca

Per sconfiggere la povertà gli africani hanno bisogno di buon governo, hanno bisogno di combattere il tribalismo, causa prima della corruzione, E hanno bisogno di libertà,

Editoriali 03_10_2017
Manifestazioni in Togo

Tutti parlano di “aiutare a casa loro” gli africani, molti propongono un “Piano Marshall” per l’Africa che sconfigga definitivamente la povertà. È chiaro che non sanno quanti “piani Marshall” sono già stati realizzati, quanti miliardi di dollari ogni anno vengono impiegati dalla cooperazione internazionale in programmi umanitari e di sviluppo destinati a quel continente. Il bilancio statale del Malawi, del Burundi, della Somalia, ad esempio, dipende per circa il 40% dagli aiuti internazionali.

Altre decine di miliardi raggiungono l’Africa sotto forma di investimenti privati. A luglio l’UE ha stanziato 3,3 miliardi di euro per incentivare i privati ad avviare attività in Africa, mirando a raggiungere la cifra di 44 miliardi investiti. Anche dagli africani emigrati arrivano ogni anno rimesse per decine di miliardi. Inoltre l’Africa ricava centinaia di miliardi di dollari dalla vendita di materie prime: minerarie (petrolio, diamanti, oro, uranio…) e agricole (cacao, caffè, tabacco, cotone…).

Non è di altro denaro privato o pubblico che gli africani hanno bisogno per sconfiggere la povertà. Hanno bisogno di buon governo, per amministrare bene le loro risorse. Hanno bisogno di combattere il tribalismo, causa prima della corruzione e delle democrazie “imperfette” che vanificano i migliori progetti di sviluppo. Hanno bisogno di libertà, di riconoscere che ogni persona detiene diritti inviolabili, senza di che continueranno a sprecare vite restando fedeli a istituzioni tribali che legittimano l’assenza di diritti universali, le discriminazioni, le gerarchie fondate su status ascritti,.

Che differenza possono fare milioni o miliardi di dollari per il Burundi, un paese già tanto assistito dalla comunità internazionale, con alle spalle una lunga guerra civile costata più di 300.000 morti, dove il capo di stato Pierre Nzurunziza, di etnia Hutu, due anni fa ha violato la costituzione per restare al potere oltre i termini previsti, dove gli Hutu stanno armando i loro giovani e forse stanno preparando un nuovo genocidio di Tutsi? A un rapporto dell’Onu pubblicato nei giorni scorsi che accusa esercito, servizi segreti e polizia di sistematiche violenze – omicidi, stupri, torture… – il governo ha risposto che il documento è parte di una cospirazione internazionale contro il paese.

Un Piano Marshall non farebbe la differenza neanche in Camerun dove le etnie di lingua inglese – una minoranza nel paese francofono – da mesi sono sul piede di guerra. Accusano, a ragione, il governo di discriminare e marginalizzare chi non parla francese. Nelle regioni anglofone da nove mesi ogni lunedì c’è sciopero generale. All’inizio dell’anno scolastico, a settembre, le scuole non hanno riaperto. Migliaia di persone hanno partecipato alle manifestazioni indette il 22 settembre, chiedendo indipendenza e libertà, i volti dipinti di bianco e blu, i colori di Ambazonia, questo il nome dei territori anglofoni.

Men che meno cambierebbero le sorti del Sudan del Sud, sfibrato da una guerra iniziata nel 2013, solo due anni dopo l’indipendenza dal Sudan che ha liberato la popolazione in prevalenza cristiana, perseguitata per decenni dal governo islamico del Sudan. Lì a scontrarsi con ferocia sono le due maggiori etnie, Dinka e Nuer, e i rispettivi alleati, reclutati tra le etnie minori. Tribalismo e corruzione hanno trasformato in un incubo il sogno di pace e libertà che sembrava aver ispirato leader e popolazione per decenni e costringono in condizioni di povertà estrema un paese che potrebbe essere tra i più prosperi del continente grazie ai giacimenti di petrolio acquisiti con la secessione.

La stessa considerazione vale per la Repubblica Centrafricana dilaniata da una guerra civile che oppone le etnie cristiane a quelle di fede islamica, minoritarie, che però nel 2013 sono riuscite a prendere il potere con un colpo di stato. Anche dopo l’intervento internazionale e l’avvio l’anno successivo di un processo di democratizzazione, le milizie islamiche Seleka hanno continuato a infierire sui cristiani con torture, omicidi, stupri, saccheggi e a distruggere beni e proprietà della Chiesa. Per fermarle i cristiani si sono organizzati creando delle squadre di autodifesa anti-balaka (anti machete) che però presto hanno iniziato a infliggere alla popolazione islamica  le stesse atrocità compiute dai Seleka.

Neanche i problemi del Togo si risolverebbero con un Piano Marshall. In questi giorni sono in corso manifestazioni popolari di proporzioni mai viste: centinaia di migliaia di persone, secondo gli organizzatori. I dimostranti sostenuti dall’opposizione protestano contro il presidente Faure Gnassingbe che non intende rinunciare alla carica, pur essendo al secondo e ultimo mandato previsto dalla costituzione, e perciò chiede la soppressione del limite ai mandati presidenziali per potersi candidare nel 2020 e, in caso di vittoria, governare fino al 2030. Quella degli Gnassingbe è una dinastia. Faure infatti ha assunto la carica  nel 2005, alla morte del padre Eyadema che aveva preso il potere nel 1967 con colpo di stato militare, conservandolo poi per 38 anni.

Somalia, Sudan, Uganda, Kenya, Rwanda, Etiopia, Chad, Nigeria, Sudafrica, Zimbabwe, Repubblica Democratica del Congo…è lungo l’elenco degli stati africani afflitti da problemi che minacciano di aggravarsi, nessuno dei quali dipende da mancanza di denaro.