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VESCOVI SCOMUNICATI

Alla destra di Lefebvre, uno scisma tira l'altro

Presso il monastero benedettino Santa Cruz di Nova Friburgo, nello Stato di Rio de Janeiro, mons. Richard Williamson – uno dei quattro vescovi consacrati da mons. Marcel Lefebvre fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X, ha conferito la consacrazione episcopale a don Jean-Michel Faure. Qualche riflessione.

Ecclesia 22_03_2015
Monsignor Richard Williamson

Giovedì 19 marzo 2015, presso il monastero benedettino Santa Cruz di Nova Friburgo, nello Stato di Rio de Janeiro (Brasile), mons. Richard Williamson – il vescovo inglese nato nel 1940, uno dei quattro vescovi consacrati il 30 giugno 1988 da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), fondatore della Fraternità Sacerdotale San Pio X – ha conferito la consacrazione episcopale a don Jean-Michel Faure. La circostanza offre vari spunti di osservazione e di analisi, che necessitano di un preliminare inquadramento, per una più adeguata comprensione.

Don Faure – che al pari di mons. Williamson non appartiene più alla Fraternità Sacerdotale San Pio X (il primo ne è stato estromesso nel 2012 e il secondo si è distaccato nel 2013), per ragioni che la medesima Fraternità enuncia in un comunicato emanato immediatamente dopo la consacrazione, «a causa delle aspre critiche che avevano formulato contro ogni relazione con le autorità romane, denunciando ciò che, a loro modo di vedere, costituiva un tradimento dell’opera di mons. Lefebvre», nasce nel 1941 in Algeria e frequenta gli anni d’istruzione in una scuola diretta dal sacerdote di origine pied-noir Noël Barbara (1910-2002), un religioso la cui importanza è di grande rilievo nella composizione del mondo tradizionalista cattolico francese – vicino fino alla metà degli anni 1970 a mons. Lefebvre, le cui posizioni aveva per certi versi anticipato –, che terminerà i suoi giorni aderendo prima alle tesi sedevacantiste e poi alla sua variante sedeprivazionista, come formulata dal teologo domenicano padre Michel Guérard des Lauriers (1898-1988), anch’egli prossimo al milieu lefebvriano e infine consacrato illecitamente vescovo.

Il dramma e i postumi della guerra d’Algeria – come conseguenza di essa, nel 1962 il giovane Jean-Michel Faure viene espulso dal Paese assieme alla famiglia, ed emigra in America Latina –, come già la cristallizzazione della ferita non assorbita della condanna dell’Action française da parte della Santa Sede, nel 1926, e infine le turbolenze e le difficoltà che fanno seguito alle istanze emerse nel corso del Concilio Ecumenico Vaticano II – tutti questi, episodi puntualmente evocati come quinta dello scenario religioso, culturale e politico che costituiscono la geografia identitaria del giovane Faure, in una conferenza da lui tenuta il 5 settembre 2013 –, inducono Faure ad avvicinarsi a mons. Lefebvre, quando nel 1972 egli si pone concretamente il quesito sulla propria vocazione al sacerdozio. Entrato nel seminario della Fraternità Sacerdotale San Pio X, viene ordinato nel 1977 a Ecône da mons. Lefebvre, il quale poco dopo gli affida la responsabilità del nascente distretto latino-americano della Fraternità e in seguito lo nomina direttore del seminario argentino Nuestra Señora Corredentora di La Reja (non lontano da Buenos Aires), dove rimarrà fino al 1985, quand’è nominato superiore del distretto del Messico. 

Come si può evincere da questo rapido excursus, un profilo di primo piano nella famiglia religiosa fondata da mons. Lefebvre, al punto che quest’ultimo, nel 1986, avrebbe sondato la disponibilità di don Faure a essere consacrato vescovo, ma questi gli suggerì piuttosto il nome dello spagnolo don Alfonso de Galarreta, che sarà in effetti uno dei quattro vescovi consacrati il 30 giugno 1988. Dopo la morte del fondatore, nel 1994 viene eletto alla carica di superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X il vescovo svizzero Bernard Fellay – anch’egli uno dei quattro vescovi consacrati da mons. Lefebvre –, rieletto per 12 anni nel 2006. La circostanza cronologica si pone agli esordi del pontificato di Benedetto XVI, il Papa che già quand’era alla guida della Congregazione per la Dottrina della Fede durante il pontificato di san Giovanni Paolo II (1920-2005), si era trovato a gestire il faticoso dossier relativo ai rapporti con la Fraternità. Nell’ottica di Papa Benedetto XVI, il rapporto con la galassia tradizionalista – beninteso, non solo di matrice lefebvriana, ma anche di chi vive questa sensibilità ecclesiale e liturgica nella piena comunione con la Chiesa – sembra non essere puramente accidentale, quanto invece un test importante, quasi un banco di prova della sua proposta di una «ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa», quale chiave di lettura adeguata – così proposta nell’importante discorso del 22 dicembre 2005 – a fronte di una prolungata e difficile ricezione del Concilio Vaticano II, indubbiamente così percepita e faticosamente metabolizzata dal mondo di sensibilità tradizionale, non da ultimo in ragione della “confusione” – per riprendere le parole di Benedetto XVI – causata da «un’interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura”», che «non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna».

L’azione di Papa Benedetto XVI in quest’ottica non ha mancato di gesti coraggiosi: il 7 luglio 2007 è pubblicato il motu proprio Summorum Pontificum che liberalizza l’uso della liturgia secondo il rito di San Pio V e in lingua latina, e nella lettera ai vescovi che accompagna tale motu proprio si fa riferimento ai concreti «sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente». Che non si tratti di semplici auspici, è dimostrato da un ulteriore passaggio, con il decreto della Congregazione per i Vescovi del 21 gennaio 2009, nel quale il prefetto card. Giovanni Battista Re, in base alle facoltà concessegli da Benedetto XVI, rimette la censura di scomunica che gravava sui quattro vescovi. Sempre nel 2009, è resa nota una Lettera di Sua Santità Benedetto XVI ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, con la quale fra l’altro si dà il via a una ripresa dei colloqui dottrinali fra la Santa Sede e la Fraternità Sacerdotale San Pio X, che iniziano il 26 ottobre dello stesso anno e terminano nel 2011; nella primavera del 2012 sono poste le basi per un accordo dottrinale e una soluzione canonica al doloroso contenzioso durato oltre un quarantennio.

Tuttavia, se da una parte – e su scala mondiale, con numeri e implicazioni generazionali che meriterebbero un’attenta considerazione e approfondimento – gli ambienti cattolici di sensibilità tradizionale in comunione con la Chiesa hanno saputo nel complesso accogliere con gratitudine e zelo le facoltà concesse dal motu proprio Summorum Pontificum, sul fronte della Fraternità Sacerdotale San Pio X le cose sono andate diversamente, forse non da ultimo come esito di una dinamica anche sociologica di un ambiente abituatosi per un periodo troppo lungo a comportarsi «come se Roma non esistesse». In effetti, com’è noto, l’accordo le cui basi erano state poste nel 2012, non ha finalmente trovato il suo esito positivo, in ragione dell’indisponibilità da parte della Fraternità – come chiaramente esposto da mons. Fellay in un discorso tenuto a Kansas City, il 12 ottobre 2013 – di sottoscrivere un documento dottrinale che avrebbe comportato l’accettazione dei documenti del Concilio Vaticano II, sia pure interpretati tenendo conto del magistero precedente e non in rottura con esso, e della legittimità – non solo della validità – della Messa celebrata secondo la riforma del beato Paolo VI (1897-1978).

Se le cose stanno così, ovvero se i rapporti fra la Santa Sede e la Fraternità Sacerdotale San Pio X sono tornati a una fase di stallo – durante il pontificato di Benedetto XVI, è bene ricordarlo a quanti avessero un vuoto di memoria – e di difficoltà reciproca che rende evidente – per riprendere le parole della già citata lettera pontificia del 2009 – che «finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa», ebbene allora come spiegarsi quanto è accaduto il 19 marzo 2015, con la consacrazione episcopale avvenuta in Brasile di don Jean-Michel Faure da parte di mons. Richard Williamson? In effetti, lungo il percorso che abbiamo tratteggiato, non sono mancati e non mancano “irriducibili” che non hanno visto con favore i contatti, prima, e l’ipotesi di accordo, poi, tra la Fraternità Sacerdotale San Pio X e la Santa Sede. Il caso esemplare e certamente più noto riguarda per l’appunto mons. Williamson – peraltro, già asceso alla ribalta nel 2009, in concomitanza con la revoca delle scomuniche ai quattro vescovi della Fraternità, per lo scandalo internazionale suscitato da alcune sue dichiarazioni sulla Shoah –, la cui posizione ha indotto i suoi superiori a sancirne l’esclusione, come abbiamo visto. 

Non da ultimo in seguito a questa esclusione, a partire dall’autunno 2012 si è venuto a creare su scala mondiale un fenomeno di fuoriuscite di sacerdoti “irriducibili” dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X – o di comunità amiche, come i benedettini di Nova Friburgo (Brasile) e i domenicani di Avrillé (Francia), in prossimità dei quali il nuovo vescovo mons. Faure ha annunciato che si trasferirà per aprire un seminario –, i quali non hanno assunto una struttura organizzata, ma hanno preferito il modello fluido del network, oggi comunemente noto con il termine di “Resistenza”, e che attualmente riguarda un centinaio di centri Messa nel mondo e una sessantina di sacerdoti e religiosi, con un seguito valutabile in alcune centinaia, forse poche migliaia, di fedeli. Fra gli episodi salienti della dinamica ora descritta, entrambi posti sotto l’autorità morale di mons. Williamson, sono la nascita della Fraternità San Pio X - Corpi d’armata mariani (SSPX-MC), nell’estate 2013, e la costituzione dell’Unione Sacerdotale Marcel Lefebvre, il 15 luglio 2014, al cui atto fondativo hanno partecipato 18 sacerdoti.

Quale significato attribuire dunque alla consacrazione episcopale conferita da mons. Williamson a mons. Faure, un uomo – non va dimenticato – che ha solo un anno meno del settantacinquenne vescovo britannico? La scelta sembra porsi più nel solco della sua valenza simbolica che organizzativa: anziché conferire una sorta di successione morale a un sacerdote giovane e dinamico, si è scelta la figura di un intransigente acclarato – il profilo biografico che ne abbiamo tracciato ne è la testimonianza – che è capace di offrire al corpo sociale dell’ambiente tradizionalista deluso o indeciso un patrimonio simbolico di richiamo a un “lefebvrianesimo incontaminato” e della prima ora, che potrebbe tentare gli appetiti di alcuni. Al contempo, si compie così un processo d’istituzionalizzazione di uno “scisma nello ‘scisma’” – l’atto posto in essere da mons. Williamson costituisce dolorosamente un atto scismatico come definito dal canone 751 del Codice di Diritto Canonico, con la conseguente grave pena della scomunica latae sententiae prevista dalla disciplina ecclesiastica (CIC, 1382) –, con la nascita di un movimento religioso piccolo – ma non piccolissimo – di sacerdoti e vescovi che si collocano alla destra della Fraternità Sacerdotale San Pio X, ritenuta troppo moderata e accusata di continuare, come di fatto continua, una qualche forma di negoziato con Roma, e nello stesso tempo critici nei confronti delle tentazioni sedevacantiste e sedeprivazioniste, con cui non vanno confusi. Se la leadership di mons. Williamson su quest’area non è priva di contestazioni e distinguo, la deriva mostra che i processi di radicalizzazione sono come valanghe – non si sa mai quando si fermano – e richiama alla meditazione oltre che alla preghiera per quanti, in buona fede, ritengono di non volersi fermare sull’orlo dell’abisso.