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SINDACALISMO

Amazon, uno sciopero serio ma controproducente

I sindacati italiani all’unisono hanno proclamato lo sciopero del “Black Friday” nel centro di distribuzione Amazon di Castel San Giovanni. Chi ha vinto? Quali lezioni trarne? Era opportuna questa protesta? Sicuramente si è protestato per ragioni concrete. Ma alla lunga lo sciopero può risultare controproducente.

Editoriali 28_11_2017
Amazon, assemblea

I sindacati italiani all’unisono, sia la Cgil, che la Cisl, la Uil e la Ugl, hanno proclamato lo sciopero del “Black Friday” nel centro di distribuzione Amazon di Castel San Giovanni. Nel giorno dello shopping per antonomasia, i lavoratori hanno incrociato le braccia, proprio lì nel luogo da cui partono tutti gli acquisti degli italiani. Si è sentito dire tutto e il contrario di tutto, nei giorni successivi. Per i sindacati le adesioni sono state al 50%, per l’azienda fondata da Jeff Bezos di appena il 10%. Per i sindacati i lavoratori sono pagati al minimo tabellare, per il colosso delle vendite online sono pagati di più di qualunque altra azienda logistica. Per i sindacati ci sono troppi infortuni, per Amazon meno che dalle altre parti. Per i sindacati il lavoro è troppo stressante, i datori di lavoro lo ammettono, ma ritengono che lo stipendio e i benefit valgano tutto quello stress. Ma per i sindacati, almeno alcuni di quei benefit sarebbero una trappola… Insomma, chi ha ragione? E chi ha vinto?

Sull'adesione è presto detto: i sindacati hanno avuto molta adesione, che però è stata colmata dal lavoro degli interinali. Sugli stipendi, come rivela una puntuale inchiesta dell’agenzia Agi, i dipendenti prendono il minimo tabellare per il contratto collettivo del commercio, che è più alto rispetto al pari grado della logistica di più di 30 euro lordi mensili. Ma non è per lo stipendio che i sindacati hanno protestato, bensì per le condizioni di lavoro, ritenute particolarmente stressanti. Ogni lavoratore è incentivato a dare il massimo e, una volta raggiunto, a battere il suo stesso record. Si tratta di una tecnica molto produttiva, ma anche molto stressante, già esposta in una ormai famosa inchiesta su Amazon nel Regno Unito, pubblicata sul Sunday Times nel 2008, quasi dieci anni fa. E poi ancora, negli Usa, patria d’origine del colosso di Jeff Bezos, i ritmi e le filosofie di “darwinismo propositivo” nel lavoro ad Amazon vennero esposte da un’altra accurata inchiesta del New York Times pubblicata nel 2015.

C’è un pro e un contro. Si accettano condizioni di lavoro e una disciplina molto più dure di altre aziende della logistica in cambio di un contratto migliore, come abbiamo visto e di benefit che Amazon elenca così: “gli sconti per gli acquisti su Amazon.it, l’assicurazione sanitaria privata (una seconda assicurazione, rispetto a quella già prevista dal contratto collettivo nazionale), i buoni pasto e le navette gratuite per il trasporto dei dipendenti”. Valutazioni incerte, invece, sugli infortuni. Secondo Amazon, gli incidenti sul lavoro sono un terzo in meno rispetto alla media nazionale. Secondo i sindacati, il tasso di infortuni è invece particolarmente elevato. E’ invece meno comprensibile come mai i sindacati protestino contro strategie aziendali come la “The Offer” (l’offerta) e la “Career Choice” (scelta di carriera). La prima offre una buona uscita a chi sceglie di rescindere il contratto, la seconda a pagare quasi integralmente (al 95%) eventuali percorsi di studi extra lavorativi. Nel primo caso è difficile vedere nell’offerta (come pensano i sindacati) un segno che l'azienda non voglia legarsi ai propri dipendenti, poiché la scelta spetta sempre al lavoratore ed è chi si sente realmente motivato che rifiuta pur di restare. Nella seconda è difficile trovare un motivo di protesta, in tutti i sensi.

La protesta dei sindacati era opportuna, dunque? Anche molti organi di stampa che solitamente hanno una posizione “aziendalista”, come Il Foglio, per fare un esempio, hanno quantomeno compreso, se non apprezzato, lo sciopero del venerdì nero. A onor dei sindacati, non si sono incrociate le braccia per cause politiche e astratte, come il “neoliberismo”, la “violenza di genere” (uno dei motivi dell’ultimo sciopero dei trasporti), la cultura delle privatizzazioni e altre questioni che sono più adatte a un partito che non a un sindacato. Nel caso del Black Friday si è invece scioperato per ottenere concrete condizioni migliori in quella determinata azienda, chiedendo premi di produzione, un aumento retributivo e un contratto integrativo. Il sindacato, insomma, si è comportato da sindacato, non da movimento politico.

Detto ciò, la protesta in Amazon può risultare controproducente. Per due motivi. Primo: agli occhi dell’azienda multinazionale, che in Italia deve già affrontare tutti gli ostacoli del nostro statalismo (un costo del lavoro da record, tasse alte, regolamentazioni punitive e una sempre maggiore incertezza del diritto), uno sciopero proclamato nel giorno in cui si possono realizzare maggiori profitti è l’ulteriore dimostrazione che in questo paese è sempre più difficile investire e produrre. Se mai dovesse esserci la necessità di tagliare i centri di distribuzione in Europa, l’Italia si è certamente candidata ai primi posti. E’ vero che è stato proclamato uno sciopero analogo anche in Germania. Ma la “locomotiva d’Europa” offre, per il resto, condizioni molto più amichevoli agli investitori stranieri. Noi ci confermiamo come un paese nemico dell’impresa privata. E quindi dove è il vero interesse dei lavoratori? Migliorare le proprie condizioni, oggi, non serve, se ciò mette a rischio, un domani, la sopravvivenza stessa del proprio posto di lavoro.

Secondo: agli occhi del grande pubblico, è difficile solidarizzare con un sindacato che cerca lo scontro con un datore di lavoro, protestando addirittura contro bonus e benefit. Perché il problema più grave, al giorno d’oggi, è la mancanza di lavoro. Con lo sciopero di Amazon si scontrano due filosofie opposte. C’è un datore di lavoro che, con le sue offerte di crescita o eventuale bonus di uscita, considera la professione dei suoi dipendenti come una scelta da coltivare e non come un semplice posto in cui si fatica per portare a casa la pagnotta. I sindacati paiono rispondere che, invece, il lavoro è solo una fatica da evitare per quanto possibile. Nonostante nelle loro motivazioni si trovi anche il concetto di dignità, paiono identificare quest’ultima solo nella vita extra lavorativa e non nella passione che si può mettere nel proprio mestiere. Agli occhi di un grande e crescente popolo di disoccupati, il loro è uno sciopero di “privilegiati”. Difficile che porti ulteriori consensi ai sindacati, che già oggi appaiono come organizzazioni fuori dal tempo, legati a un mondo del lavoro che non esiste più.