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Aung San Suu Kyi, due lezioni sul crollo di un mito

La leader birmana Aung San Suu Kyi è in difficoltà. Era l'icona mondiale del pacifismo e della resistenza nonviolenta a un regime militare. Adesso è l'incarnazione del regime stesso. Quali lezioni trarre? Che il potere corrompe (e i militari birmani lo sanno). E che la repressione fa perdere consensi nel mondo, specie se le vittime sono musulmane.

Editoriali 15_09_2018
Aung San Suu Kyi

La leader birmana Aung San Suu Kyi ha compiuto un altro passo nel baratro di impopolarità in cui si sta infilando da almeno due anni. Era un simbolo della pace nel mondo, al pari di Nelson Mandela e del Mahatma Gandhi, una delle più popolari vincitrici del Nobel per la Pace, meritatissimo in questo caso dopo decenni di persecuzione subita e di arresti domiciliari. Adesso è attaccata da tutti per la sua imbarazzante difesa pubblica dell’arresto di due giornalisti dell’agenzia Reuters, colpevoli solo di aver fatto il loro lavoro, a quanto risulta finora.

Nel corso della conferenza di Hanoi del Forum Economico Mondiale, a domanda sull’arresto dei giornalisti, ha risposto che: “Non sono stati arrestati perché giornalisti, ma perché (…) il tribunale ha sentenziato la violazione della Legge sui Segreti di Stato”. Una difesa che sa di arrampicata sui vetri e probabilmente la è, perché evidentemente la leader birmana, non può mettere in discussione la sentenza di un tribunale, né la legge per cui due giornalisti sono ora in carcere. Eppure gli indizi che siano innocenti ci sono eccome e, quel che c’è di peggio, è che sono sotto gli occhi del mondo: stando a quanto emerso durante il processo, i documenti segreti erano già pubblici prima che venissero arrestati i giornalisti. I due reporter dell’agenzia internazionale stavano indagando su un massacro in un villaggio della minoranza musulmana Rohingya, di cui l’esercito birmano stesso ha successivamente ammesso la colpa e sul quale sono partite indagini e misure punitive per i responsabili. E secondo testimoni, la polizia ha teso una trappola ai giornalisti piantando quei documenti nelle tasche di Wa Lone, uno dei due arrestati. Una trappola in perfetto stile dei regimi totalitari, insomma.

Ma è una trappola ancora peggiore per Aung San Suu Kyi, la cui popolarità e rispetto nel mondo stanno cadendo sempre più in basso, per azioni che non può controllare. La prima lezione da trarre da questa vicenda è proprio questa: il potere corrompe e i militari birmani, al potere da più di mezzo secolo, lo sanno bene. Invece che continuare a detenere Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari, facendone un’icona mondiale della resistenza nonviolenta, due anni fa i militari birmani hanno permesso alla leader democratica di entrare al governo, ma non di comandare, e al suo partito (la Lega Nazionale per la Democrazia) di competere liberamente alle elezioni, ma non di formare una maggioranza assoluta. Aung San Suu Kyi è il volto ufficiale della repubblica del Myanmar, ma non può essere presidente del consiglio a causa di un cavillo che pare inventato apposta per lei: i suoi figli hanno cittadinanza straniera. Nel governo ha la carica di “consigliere di Stato”, rappresenta il paese anche all’estero, ma le questioni fondamentali su pace, guerra, minoranze e persecuzione sono prese da militari che occupano i ministeri di Difesa, Interni e Confini Nazionali. Nel parlamento del Myanmar, un quarto dei seggi è riservato ai militari, impedendo così alla Lega Nazionale per la Democrazia di cambiare la costituzione, nemmeno in caso di vittoria di una maggioranza qualificata alle elezioni. La leader pacifista, premio Nobel per la Pace, si prende la colpa per le azioni dei militari, senza poterle controllare e senza neppure poterle apertamente denunciare. L’effetto è peggiore rispetto a quello di una persecuzione nei suoi confronti.

La seconda lezione che si può trarre da questa vicenda, riguarda la sensibilità occidentale. Anche nell’era di Aung San Suu Kyi al governo, la repressione militare del dissenso e la guerriglia, anche molto violente, è continuata negli Stati del Nord, al confine con la Tailandia, ai danni di minoranze etniche come i Kachin (cristiani) e ultimamente anche i Ta’ang  (buddisti, come la maggioranza dei birmani). Eppure lo scandalo della repressione ha suscitato l’attenzione dei media solo nell’agosto del 2017, quando nel mirino dell’esercito sono entrati i Rohingya, minoranza musulmana del Sudovest, nello stato del Rakhine. Non si tratta di una persecuzione a senso unico. La campagna militare è scattata dopo una serie di attentati. E sia i cristiani che i buddisti locali denunciano atti di violenza continui da parte degli insorti Rohingya. Certo è che la risposta è stata fuor di ogni proporzione. L’esercito ha commesso crimini immensi, provocando la fuga di circa 700.000 persone dal Rakhine. E’ solo una questione di numero? O l’attenzione dei media si accende su un caso, solo quando le vittime sono musulmane e relega all’archivio delle “questioni interne” quando sono cristiane, animiste e buddiste? Le organizzazioni islamiche hanno un peso, all'Onu, che le altre minoranze si sognano. E hanno un'influenza sulle Ong (che Aung San Suu Kyi ha apertamente accusato di complicità con la guerriglia nel Rakhine) che non ha eguali. In Occidente, toccare la corda dell'islamofobia, è come toccare un nervo scoperto. Nessuna guerriglia birmana ha mai fatto così tanta notizia come quella nello Stato del Rakhine.