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FOLLIE D'EUROPA

B come Brexit, ma anche come Bitto e bresaola

L’uscita della Gran Bretagna dall’Ue è solo l’ultimo caso, clamoroso e inaspettato, dell’insofferenza popolare verso un’Europa ormai priva di ogni fondamento politico e ideale. Ma altri episodi, certamente più piccoli, sono lì a testimoniarlo. Come il caso del Bitto, il tipico formaggio valtellinese.

Economia 13_07_2016
Il Bitto, tipico formaggio della Vaaltellina

L’esodo della Gran Bretagna dall’Ue per diretta decisione del popolo è venuto di recente a farci scoprire che il disagio nei confronti di questo tipo di unione dell’Europa (non necessariamente dell’Europa in quanto tale) è ormai molto forte e molto diffuso. D’altra parte, se messe alla prova di  referendum popolari, le istituzioni europee ne sono sempre uscite battute. 

Non è un caso che perciò nei Paesi di più debole radicamento della democrazia, Italia inclusa, le élites che governano lo sviluppo delle istituzioni europee le abbiano sempre fatte procedere per vie traverse evitando il dibattito in materia o soffocandolo. Particolarmente vergognoso fu al riguardo il comportamento del Senato italiano, che approvò la Costituzione europea praticamente senza dibattito in un giorno compreso tra quello della morte e quello dei funerali di Giovanni Paolo II, quando ovviamente tutto il mondo stava pensando a ben altro.

In Gran Bretagna, e ciò sia iscritto a merito della democrazia britannica, non si è voluto prendere il popolo per il naso. È puntualmente il risultato è stato in linea con gli analoghi casi precedenti: quelli ad esempio dei referendum francese e olandese appunto sul progetto di Costituzione europea. Anche se comprensibilmente è il generale deficit di democrazia dell’Ue a richiamare l’attenzione della politica nel senso più ampio del termine, sono i singoli episodi specifici che meglio aiutano a farsi un’idea di come dalle attuali istituzioni europee una colata di autoritarismo tecnocratico discenda fino ad ogni angolo d’Europa. 

Mi piace perciò qui soffermarmi su un caso minuscolo ma davvero emblematico, quello dei produttori del Bitto, un particolare e qualificatissimo formaggio d’alpe della Valtellina. Il suo carattere davvero estremo ne ha fatto un caso di notorietà internazionale, quanto meno nel mondo di chi si occupa di queste cose. In forza, infatti, della Dop (Denominazione di Origine Protetta) sancita in sede europea, chi lo produce secondo la sua ricetta originaria non lo può più chiamare così. A norma della Dop, fatta su misura per una lavorazione di tipo industriale, il vero Bitto non è più vero. Chi continua a produrlo secondo la ricetta originaria rischia denunce nientemeno che per frode in commercio.

Il Bitto originario è un formaggio di qualità unica – sovente venduto sul mercato internazionale dell’alta gastronomia a prezzi paragonabili a quelli del tartufo d’Alba – che però ovviamente non si adatta alla produzione industriale massiva. Tenuto conto della sua fama mondiale, buon senso avrebbe voluto che del Bitto autentico si facesse una specie di “Ferrari” della produzione casearia valtellinese: un prodotto/bandiera che fungesse da simbolo e da antesignano del resto della produzione agro-alimentare di qualità della valle. Piegandosi invece, come sempre, agli interessi più miopi, purché corposi e meglio introdotti, nei primi anni 2000 l’Unione Europea istituì una Dop (Denominazione di Origine Protetta), in forza della quale il nome “Bitto” è andato a designare un nuovo formaggio… meticcio pensato su misura per l’industria casearia di fondo valle. 

Con la benedizione di Bruxelles il Bitto Dop si produce, anzi si fabbrica, non più con latte munto da 30 minuti al massimo, non più con una percentuale fissa di latte ovino, non più lavorandolo soltanto in alpe, e non più servendosi di latte di vacche e ovini nutriti esclusivamente con foraggio fresco di alpeggio. Insomma, è un altro formaggio; un normale dignitoso formaggio da supermercato, ma niente a che vedere con lo storico e celebre Bitto. Non solo: mentre all’origine il Bitto si produceva soltanto sugli alpeggi di due convallli valtellinesi, la valle Gerola e la valle del Bitto di Albaredo, il territorio del nuovo Bitto Dop è stato fatto coincidere con quello dell'intera provincia di Sondrio, circoscrizione amministrativa irrilevante da un punto di vista caseario.

Dopo essersi fatti gabbare da tale operazione (e di questo devono incolpare soltanto se stessi) i produttori del vero Bitto aprono gli occhi, sia pure in ritardo. Inizia così una lunga battaglia che ne I ribelli del Bitto, un libro-dossier scritto da Michele Corti e edito da Slow Food, sembra quasi un romanzo d’avventura.  I dodici che continuano a produrre Bitto nel modo originario si raccolgono in un’associazione resistendo a minacce e ingiunzioni. Producono circa 1500 forme di Bitto “storico” all’anno contro le 20 mila che vengono immesse sul mercato dalle circa 60 aziende casearie riunite nel Consorzio di Tutela del Bitto e Casera. Eppure quelle 1500 forme sono viste dagli altri come una sfida insopportabile. 

Invece di aiutare i diretti interessati a guardare al di là del proprio naso le istituzioni – Provincia, Camera di Commercio, Regione – hanno puntato, peraltro senza successo, a mediazioni al ribasso, mentre l’Unione Europea, giocando come sempre con i grandi contro i piccoli, ha negato la possibilità di risolvere il problema con la creazione di due Consorzi a rispettiva tutela del Bitto storico e di quello industriale. É di queste settimane la notizia che i produttori del Bitto storico stanno decidendo di rinunciare al nome “Bitto” e di inventarsene uno nuovo, comunque soddisfatti per la grande notorietà internazionale che dalla vicenda è a loro derivata. Sin dal Giappone sono giunti in Val Gerola inviati e fotografi a intervistarli. 

Quella che esce sconfitta è la produzione agro-alimentare italiana di alta qualità; e ancora una volta grazie a Bruxelles. D’altra parte, basti pensare che oggi, a norma della relativa Dop, la bresaola valtellinese può venire prodotta anche con carne congelata di zebù proveniente dal Brasile (come infatti adesso è nelle maggior parte dei casi). L’autoritarismo tecnocratico dell’Unione Europea insomma non incide soltanto sui massimi sistemi. Anche il formaggio e la bresaola ne fanno le spese.