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LETTERA DAL CENTRAFRICA

Bangui, la vita riparte dal campo rifugiati

Intorno al Carmel della capitale si è ormai creato un Centrafrica in miniatura, con i rifugiati che tentano di ricostruire una parvenza di normalità, incluso il mercato di verdure e generi alimentari di ogni tipo. E il convento diventa ospedale...  

Esteri 19_01_2014
Il Carmel di Bangui

Carissimi,

eccomi con qualche aggiornamento dal Carmel di Bangui.

Dopo il mio ultimo notiziario, l’avvenimento più importante sono state, il 10 Gennaio, le dimissioni del presidente Djotodia, salito al potere con un colpo di stato lo scorso 24 marzo. In tutto il Centrafrica c’è stato come un grande sospiro di sollievo collettivo, così forte che forse l’avete sentito anche voi. Ma, dopo qualche ora di gioia e di speranza – e qualche rifugiato si è pure permesso una bella sbronza –  la guerra si è di nuovo fatta sentire con spari – e ancora morti – , saccheggi  e disordini in molti quartieri, alcuni dei quali molto vicini al nostro convento. I nostri rifugiati, quindi, non se la sono data e hanno preferito restare con noi, in attesa di tempi migliori e di una pace più vera.

Secondo le ultime stime ufficiali un centrafricano su cinque – il che vuol dire quasi un milione – è attualmente un rifugiato. Difficile non dare ragione a questa gente, ormai toppo abituata ai giochi di prestigio della politica; difficile non ammettere che il Centrafrica, dopo tutta questa brutta storia, meriti qualcosa di più. Restare qui è una forma di protesta pacifica per esigere al più presto una pace vera e non una pace a metà. Ora siamo tutti in attesa dell’elezione di un presidente provvisorio; bisogna poi disarmare tutte le armate irregolari che non obbediscono a nessuno e terrorizzano il paese e, infine, cercare di arrivare in tempi ragionevoli a delle elezioni più o meno democratiche. C’è un paese da ricostruire e un sacco di lavoro da fare.

Nel nostro campo rifugiati – il cui numero è comunque un po’ diminuito, anche se sono sempre tanti – la vita procede abbastanza normale… per quanto possa dirsi normale la vita di migliaia di persone strette attorno ad un convento. Più che un campo profughi il nostro sembra un accampamento romano con un tocco tropicale. È davvero interessante osservare come la gente si è  organizzata per sopravvivere in questa emergenza. Si è creato addirittura un piccolo – ma neanche tanto piccolo – mercato di verdura, carne, generi alimentari di ogni sorta e altre cose utili. Ci sono addirittura dei salon de coiffure, piccole farmacie, negozi di articoli religiosi, una sorta di gioco del lotto, buvette e bistrot sempre molto frequentati. Il priore precedente al sottoscritto amava andare spesso al famoso Km5, il più affollato mercato di Bangui, per fare acquisti a buon mercato. Io posso dire di aver avuto la fortuna che il Km5 è venuto qui da me!

Abbiamo fatto addirittura un regolamento per aiutarci a vivere meglio insieme di giorno e riposare un po’ di più la notte. Il regolamento non è del tutto e sempre rispettato, ma ha la sua utilità (tanto che altri campi rifugiati l’hanno preso in prestito). Forse vi sembrerà strano, ma al 4° parallelo dall’equatore ci sono valori e principi che non son per nulla scontati: la precedenza ontologica del bambino e dell’anziano, tanto più se malati, nella distribuzione anche solo di una coperta; l’importanza del rispetto di un bene comune, cha appartiene e serve a tutti, fosse anche una sedia; il lavoro fatto bene e gratuitamente a servizio degli altri; il rispetto della proprietà privata… soprattutto se la proprietà in questione è dei frati! Nel Medioevo i monasteri furono per l’Europa cellule di civiltà e democrazia. Nel 2014, in Africa, conventi di frati e suore danno ancora un notevole contributo, spesso sottovalutato, allo sviluppo dei popoli e alla promozione di valori umani essenziali per vivere insieme senza farsi troppo male.

Un intraprendente comitato – con tanto di presidente, vicepresidente, segretario generale, segretario aggiunto, segretario disgiunto, consiglieri, aiuto consiglieri, assistenti, aiuto assistenti, portaborse e facchini… – assicura il trait d’union, tra la comunità dei frati e i rifugiati, per il coordinamento delle attività. E, manco a farlo apposta, è sorto pure il sindacato per i diritti dei rifugiati! Insomma: attorno al convento ora c’è un Centrafrica in miniatura con tutte i suoi vizi e le sue virtù. E questa coabitazione forzata mi ha permesso di conoscere meglio i primi e di apprezzare di più le seconde.

Per fortuna, a darci una mano, arriva Pietro ogni tanto, un mio coetaneo, originario di Lecco, che lavora con grande passione e competenza per la Croce Rossa Internazionale. Dall’Afghanistan è stato inviato d’urgenza in Centrafrica: uno sbalzo termico e culturale davvero notevole. I miei rifugiati lo amano molto perché qualche giorno fa ha portato due camion di mais, fagioli, olio e sale. Quando arriva dice a tutti di appartenere alla mia stessa tribù. Ma, dal momento che Pietro è alto due metri, biondo e con gli occhi azzurri, nessuno gli crede.

Le nascite dei bambini, dopo un picco di 4 parti il giorno di Natale (mi sembra anche ovvio!) sono diminuite. In compenso, tanto per non disabituarci all’idea, la nostra gatta ha sfornato tre piccolissimi gattini nell’armadio della sacrestia. Abbiamo saputo che tra i centomila sfollati dell’aeroporto un neonato è stato chiamato François Hollande: come vedete, ognuno ha i suoi santi patroni o, forse, non sappiano più a che santo votarci!

Nel frattempo, oltre ai santi, ci affidiamo ai militari francesi, che stanno facendo un meticoloso lavoro di disarmo e pacificazione tra i diversi gruppi ostili. Proprio pochi giorni fa, una pattuglia è venuta a farci visita. Il sergente Thierry si è fermato a chiacchierare un po’ con noi per aggiornarci sulla situazione. Purtroppo ci sono ancora gruppi di ribelli che si nascondono attorno alla capitale… e attorno al nostro convento; ma vi sono comunque segnali concreti di distensione. Speriamo che abbia ragione. Ci assicura che sono qui per una missione di pace, anche se hanno addosso degli strumenti che sembrano dire il contrario. Mi fa quasi tenerezza questo giovane sergente! Prima di essere precipitato qui, tra seleka e antibalaka, è stato in Afghanistan, in Libano e in Mali. Ci racconta che una notte, su una strada di Bangui, ha dovuto assistere con la sua pattuglia al parto di una donna: “Solitamente noi militari vediamo la gente morire, quando non siamo noi stressi costretti a uccidere. Questa volta ci è invece capitato di aiutare un bimbo a nascere”. E poi, un po’ emozionato, mi rivela che da pochi giorni è diventato lui stesso papà di due gemelli e che non ha ancora avuto la possibilità di vederli.

Il nostro piccolo ospedale da campo funziona a pieno regime.  E, tanto per non peccare di orgoglio, diciamo pure che è il nostro fiore all’occhiello. Con 4 giovani medici, 4 infermieri (tra cui suor Renata, che ci raggiunge ogni giorno facendo un’ora di strada a piedi) e altri aiutanti riusciamo a fare centinaia di consultazioni al giorno e non pochi interventi la notte. I medicinali ci sono forniti gratuitamente da un organismo. Il deposito dei medicinali è nella mia stanza e quindi mi trovo a dormire tra montagne di paracetamolo, antibiotici e disinfettante. Pochi giorni fa, con l’aiuto di un’ONG, quattro squadre d’infermieri hanno vaccinato più di 2000 bambini contro il morbillo e la  poliomelite. Vi lascio immaginare gli strilli che abbiamo sentito perché, anche qui, le punture non piacciono a nessuno. Un’equipe di Medici senza frontiere olandese, dopo aver visitato il nostro ambulatorio e la sala parto, è rimasta quasi allibita e ci ha salutato dicendo: “Non possiamo fare niente per voi, perché non potremmo fare di più di quello che state già facendo”. Tutto nella vita avrei immaginato fuorché diventare il direttore sanitario di un ospedale, sbocciato in un baleno, nel refettorio del mio convento. A volte mi viene quasi il pensiero che, dal momento che la nostra casa ha ben poco dell’architettura tipica di un convento carmelitano, il luogo in cui abitiamo non sia quasi più funzionale come ospedale. Meglio non pensarci: questa è roba da non fa dormire padre Anastasio e i nostri benefattori!

Mi permetto, però, di aprire una parentesi su padre Anastasio, perché forse qualcuno di voi non ha la fortuna di conoscerlo. Padre Anastasio è il fondatore e l’anima di questo paradiso che è il Carmel di Bangui. Ha più del doppio dei miei anni e il triplo del mio entusiasmo. Dal 1998 vive nel nostro convento di Praga, ma dal 1975 il suo cuore è in Centrafrica. Questo frate gentile e sorridente, sempre armato della sua macchina fotografica, gira il mondo ai cento all’ora, dall’India agli Stati Uniti, parlando fin troppo bene – e in 8 lingue diverse – di noi missionari; mi sembra giusto che, almeno una volta, qualche missionario parli un po’ bene di lui. Senza di lui e senza la sua infaticabile animazione missionaria le nostre missioni non sarebbero quello che sono e che tutti ci invidiano. Per dedicarsi a questa sua missione, con uno zelo davvero ineguagliabile, vorrebbe che le giornate fossero di trentasei ore.

Padre Anastasio, dotato di una memoria incredibile, è un professore di storia della Chiesa mancato. Ma questa sua memoria gli ha permesso di raccogliere volti, storie e amicizie di migliaia di benefattori sparsi per il mondo. E pensare che, quando cominciò questo lavoro, non aveva un indirizzo e neppure i soldi per venire in Africa. Per chi non lo sapesse, è proprio lui l’inventore della mitica lavanda dei frati di Arenzano che ha profumato il mondo intero. Padre Anastasio ha tre amori: Gesù Bambino (preferibilmente quello di Praga, in seconda battuta quello di Arenzano), i poveri del Centrafrica (e se gli date un euro statene certi che arriverà nelle loro mani) e poi i tek (penso che ne abbia piantato un numero pari a quello degli abitanti del Centrafrica).

Alla fine degli anni Novanta acquistò questo pezzo di foresta, nella periferia della capitale del Centrafrica, pensando ad un monastero di carmelitane. Ma le monache purtroppo non arrivarono. E allora padre Anastasio trasformò questo pezzo di foresta in un giardino, con un’immensa piantagione di palme da olio e un lussureggiante vivaio di tek e altre piante, dicendo: “L’olio possiamo produrlo in poco tempo, i tek saranno utili tra 40 anni”. In seguito, per l’esattezza dal 2006, vi s’installarono i frati, adattando a convento quelle che erano in realtà le strutture destinate per un oleificio. Venne così inaugurata una presenza carmelitana stabile in capitale, da tempo desiderata e per tante ragioni. Da allora Padre Anastasio viene al Carmel più o meno ogni tre mesi per incoraggiarci nel nostro lavoro e controllare la crescita dei tek. Quando è tra noi le ricreazioni sono animate dai racconti dei suoi viaggi e allietate dall’ottimo cioccolato che non manca mai nelle sue valigie. Ero certo che, nonostante i recenti avvenimenti e l’insicurezza che regna nel paese, non avrebbe mancato a quest’appuntamento.

Ci ha raggiunto qualche giorno fa, passando addirittura per il Marocco. Prima del suo arrivo lo avevo prevenuto, un po’ preoccupato, che i nostri cari rifugiati si erano serviti dei tek e dei rami di palma per costruire centinaia di piccole capanne attorno al convento. Ma, appena arrivato, mi saluta e mi rassicura, prima che possa dirgli qualcosa: “Stai tranquillo, caro padre priore! Tu sei giovane. Io so cos’è la guerra perché l’ho vista da bambino. Pensavo che i tek sarebbero stati utili tra quarant’anni, quando non ci sarò più; e, invece, sono stati utili prima e ho fatto in tempo a vederlo! Corro a fare qualche foto”. Questo è padre Anastasio. Anche se non è mai stato un missionario in senso stretto, è difficile trovare qualcuno che ami l’Africa più di lui.

Il capodanno è passato senza troppi bagordi e con nessun botto: sarebbe stato confuso con qualche colpo di mortaio o sparo di kalashnikov. Per la festa dell’Epifania vorrei introdurre in terra d’Africa una tradizione italiana, suggerendo a tutti i miei bambini di presentare ai loro genitori le loro calze, per ricevere qualche piccolo dono. Ma mi fermo giusto in tempo, quando mi accorgo che i miei bambini camminano quasi tutti scalzi e che metterei in serie difficoltà i loro genitori, perché hanno ben poco con cui potrebbero riempire le calze dei loro bambini.

Grazie al diretto interessamento della senatrice Puppato, che ha fatto risuonare nell’aula del Senato italiano il dramma del popolo centrafricano, il ministero degli Esteri organizzerà un volo umanitario. Quando l’ho saputo ero così felice che, la notte, ho sognato un aereo dell’aeronautica militare italiana, guidato da Emma Bonino, atterrare qui al Carmel, carico di agnolotti, tartufi, tomini freschi al pepe, gianduiotti e krumiri per tutti i miei ospiti…

In questi giorni abbiamo ricevuto tantissime attestazioni di stima dal mondo intero e soprattutto dai nostri confratelli e consorelle del nostro Ordine. Tanta celebrità ci ha un po’ confusi. Li meritiamo davvero tutti questi complimenti? Vi confesso che non ce ne siamo neppure accorti di aver fatto qualcosa di così straordinario. Anche voi, al nostro posto, avreste fatto la stessa cosa. Inoltre, è bene che sappiate che ci sono siti che vivono situazioni simili alla nostra e anche con più rifugiati. Comunque, a scanso di equivoci, vorrei che non v’immaginaste il sottoscritto sempre prono, giorno e notte, ai piedi dei nostri ospiti. Anzi, più di una volta ho perso la pazienza e qualcuno dei rifugiati più turbolenti o esigenti l’ho mandato, più o meno gentilmente, a farsi benedire (che è però un vero boomerang per un prete!). Per fortuna padre Mesmin, il mio vice-priore, supplisce al sottoscritto con una calma e una pazienza davvero eccezionali.

Come già era successo nel mese di Marzo, anche questa volta Papa Francesco si è ricordato di noi. Lo ho fatto una prima volta il giorno Natale, chiedendo il dono della pace per questa terra: “Dona pace, bambino, alla Repubblica Centrafricana, spesso dimenticata dagli uomini. Ma tu, Signore, non dimentichi nessuno! E vuoi portare pace anche in quella terra, dilaniata da una spirale di violenza e di miseria, dove tante persone sono senza casa, acqua e cibo, senza il minimo per vivere”. E poi una seconda volta, parlando, alcuni giorni, fa al Corpo diplomatico in Vaticano: “In Africa i cristiani sono chiamati a dare testimonianza dell’amore e della misericordia di Dio. Non bisogna mai desistere dal compiere il bene anche quando è arduo e quando si subiscono atti di intolleranza, se non addirittura di vera e propria persecuzione. Il mio pensiero va soprattutto alla Repubblica Centrafricana, dove la popolazione soffre a causa delle tensioni che il Paese attraversa e che hanno seminato a più riprese distruzione e morte. Mentre assicuro la mia preghiera per le vittime e per i numerosi sfollati, costretti a vivere in condizioni d’indigenza, auspico che l’interessamento della Comunità internazionale contribuisca a far cessare le violenze, a ripristinare lo stato di diritto e a garantire l’accesso degli aiuti umanitari anche alle zone più remote del Paese. Da parte sua, la Chiesa cattolica continuerà ad assicurare la propria presenza e collaborazione, adoperandosi con generosità per fornire ogni aiuto possibile alla popolazione e, soprattutto, per ricostruire un clima di riconciliazione e di pace fra tutte le componenti della società”. Non potete immaginare come queste parole ci abbiano rincuorato e assicurato di essere sulla buona strada.

La saggezza popolare, in modo forse un po’ grossolano, ricorda che l’ospite è come il pesce e che dopo tre giorni puzza. Il Vangelo e la Regola di san Benedetto affermano invece che il forestiero e l’ospite sono Cristo. Quindi, anche dopo tanti giorni, forestieri, ospiti o profughi che dir si voglia profumano ancora di Lui. Cerchiamo di attenerci, con tutti nostri limiti, a questa regola… anche se di giorni ne sono passati ormai 44!