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IL LATINO SERVE A TUTTO/XXV

Bellezza e sintesi della lingua: il sacrificio di Ifigenia

La bellezza del De rerum natura è comprensibile dalla lettura attenta del testo in latino che permette di illuminare da un lato l’abilità e il virtuosismo plastico con cui Lucrezio costruisce immagini icastiche e dall’altro le incredibili potenzialità della lingua latina.

Cultura 16_09_2018

La bellezza del De rerum natura è comprensibile dalla lettura attenta del testo in latino che permette di illuminare da un lato l’abilità e il virtuosismo plastico con cui Lucrezio costruisce immagini icastiche e dall’altro le incredibili potenzialità della lingua latina.

Nel primo libro, dopo l’apertura (invocazione a Venere) e l’inno a Epicuro, Lucrezio mostra la stoltezza della religio antica stigmatizzata nella tragedia del sacrificio di Ifigenia: «In queste situazioni temo quello, che tu per caso pensi di introdurti nei principi empi di una dottrina e di intraprendere la strada del delitto. Al contrario troppo spesso quella superstizione ha dato luogo ad azioni scellerate ed empie. In questo modo in Aulide i capi scelti dei Danai, fior fiore degli eroi, macchiarono orribilmente l’altare della vergine Trivia con il sangue di Ifigenia. E non appena a costei la benda posta intorno alle chiome verginali scese da una parte e dall’altra delle guance allo stesso modo e non appena si accorse che il padre triste stava davanti agli altari e che presso costui i sacerdoti nascondevano la spada e che i cittadini alla sua vista piangevano, muta per la paura caduta sulle ginocchia cercava la terra. E non poteva giovare a lei infelice in una situazione del genere il fatto di aver donato per prima il nome di padre al re; infatti, fu sollevata dalle mani degli uomini e fu condotta tremante verso gli altari, non perché potesse essere accompagnata in un luminoso imeneo, dopo aver compiuto il rito solenne secondo le tradizioni, ma pura impuramente nel momento stesso delle nozze cadesse a terra come triste vittima, per il colpo del padre, affinché fosse data una partenza fortunata e favorevole alla flotta. A così grandi mali la superstizione poté indurre».

È importante leggere un’opera letteraria (se possibile) nella sua lingua originaria che salvaguardia la bellezza dall’atto poetico e creativo.

Il testo latino recita, quindi, così:
Illud in his rebus vereor, ne forte rearis                    80
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris. Quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
       
Iphianassai turparunt sanguine foede                       85
ductores Danaum delecti, prima virorum.
Cui simul infula virgineos circum data comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros        
90
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
Nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem.
Nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras         
95
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.                             
100
Tantum religio potuit suadere malorum.

Il lacerto presenta una vera e propria tragedia che ha il fine di mostrare come sia la «religio» antica ad essere «scelerosa» (delittuosa, da «scelus» ovvero delitto) ed «impia» pius» è chi mostra riverenza nei confronti di chi ci è superiore, i genitori, il maestro, il comandante, le divinità). Enea è l’eroe romano pio per eccellenza. Il lettore non dovrà, quindi, avere paura di intraprendere una lettura che lo porti su strade sbagliate, che sviliscono la ragione e che contraddicono la morale («impia te rationis inire elementa viamque indugredi sceleris»). I vv. 84-86 costituiscono il prologo della tragedia, che mostra proprio ad inizio di verso il luogo dove si svolge la tragedia («Aulide»), i protagonisti («Iphianassai, ductores Danaum») e l’oggetto della vicenda («Triviai virginis aram/ Iphianassai turparunt sanguine foede»). Anche in questo caso dovremmo soffermarci su ciascuna singola parola, su quell’avverbio «foede» (vergognosamente) che esprime il giudizio dello scrittore sul sacrificio di Ifigenia o sull’espressione «virginis triviai» che indica Diana, la divinità del crocicchio, posta agli incroci, la dea triforme (Diana in Terra, Luna in cielo, Ecate nell’Ade).

Nei versi successivi (87-92) il poeta descrive l’immagine plastica delle bende che vengono fatte scendere sulle guance dai capelli e il punto di vista non è più il popolo o lo scrittore che narra, ma si identifica con la vittima Ifigenia che vede la scena attorno a sé e capisce gradualmente quello che sta per accadere. Il suo sguardo si sposta dal particolare, quel padre che dovrebbe essere persona fidata e lieta di vederla, mentre presenta un volto triste («maestum simul ante aras adstare parentem»), ad una scena sempre più ampia: prima i ministri che nascondono le spade («hunc propter ferrum celare ministros») e, poi, i cittadini che piangono al vederla («aspectuque suo lacrimas effundere civis»). Allora Ifigenia comprende tutto e s’inginocchia a terra («terram genibus summissa petebat») silenziosa per la paura («muta metu). Ma l’espressione latina con la consonanza e l’allitterazione della dentale «t» è molto più forte della traduzione italiana.

Nulla può impedire il suo sacrificio, neanche il fatto che sia la primogenita del re: nel testo si scrive che ha donato per prima al padre il nome di padre.

Per questo Ifigenia viene accompagnata dall’alto (dove si trova il popolo e i grandi eroi) verso l’altare collocato in basso, come in mezzo alla scena: tutto questo è comunicato con la semplice espressione «deductast» da «deducere» (condurre dall’alto verso il basso), prova della sinteticità  della lingua latina a contro dell’analiticità di quella italiana. Si configura così di fronte agli occhi del lettore una sorta di teatro costituito dalla cavea (la collina dove si trova il popolo) e dal palcoscenico (il luogo dov’è collocato l’altare).

Dai vv. 97-99 l’attenzione passa alla psicologia, ai pensieri e alle attese della ragazza, ormai in età da marito e fiduciosa nella bontà del padre. Questi, però, violando la sua fiducia la immola come vittima («hostia»). La contrapposizione tra l’innocenza della figlia e la colpevolezza del padre è sottolineata dall’espressione «casta inceste», che comprende in sé una figura etimologica, una variatio e un’antitesi. Si noti come in questa morte sia forte l’allusione all’ambito sessuale, proprio perché gli anni in cui lei è stata immolata corrispondevano a quelli in cui la ragazza si sarebbe dovuta sposare e avrebbe conosciuto le gioie del talamo. Il termine latino «hostia» (vittima sacrificale) ci permette di comprendere meglio che cosa sia l’ostia/eucarestia. Perché immolare Ifigenia? In modo tale che l’esito del viaggio fosse «faustus» et «felix» ovvero «propizio» e «fortunato».

Il verso finale ha un tono tombale: «Tantum religio potuit suadere malorum» («A un così grande misfatto poté indurre la religione»). La costruzione del verso di Lucrezio appare sapientemente orchestrata a chiasmo: il complemento oggetto apre e chiude il verso («tantum» e «malorum»), poi nel cuore del verso troviamo in ordine il soggetto e il verbo.

Forse Dante avrà in mente Lucrezio quando conclude le grandi tragedie dell’Inferno: quella di Ulisse («infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso»), quella di Pier della Vigna («ciascuno al prun dell’ombra sua molesta»), di Paolo e Francesca («quel giorno più non vi leggemmo avante»), del conte Ugolino («Poscia, più che ‘l dolor potè ‘l digiuno»).