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EDITORIALE

Bevilacqua malato Il Corriere peggio

La malattia dello scrittore Alberto Bevilacqua e una denuncia della sua compagna sono un pretesto per il Corriere della Sera per lanciarsi in una campagna per riconoscere le unioni di fatto. Ma il castello si regge su un cumulo di menzogne e ignorando la legge italiana.

Editoriali 27_01_2013
Alberto Bevilacqua

Avete presente l’espressione “un caso montato ad arte”? Ecco, questo modo di dire è assolutamente adatto per la vicenda che andiamo a raccontare.

Il Corriere della Sera nella prima pagina di ieri dà rilievo al seguente fatto. Lo scrittore 78enne Alberto Bevilacqua tre mesi or sono viene ricoverato presso la clinica romana di Villa Mafalda per uno scompenso cardiaco. Ad oggi le sue condizioni appaiono peggiorate a causa di un’infezione respiratoria che – almeno così riporta la giornalista Ilaria Sacchettoni - gli potrebbe essere anche fatale. Da quello che trapela, lo stato di prostrazione fisica in cui è caduto Bevilacqua non lo rende pienamente più capace di intendere e volere. Così la compagna dello scrittore, Michela Macaluso, vorrebbe decidere a posto suo e dimetterlo da questa clinica per trasferirlo in una pubblica, a suo dire, ben più efficiente. Ma da Villa Mafalda arriva un secco no. Infatti il direttore sanitario della clinica, Mario Maggio, tiene a precisare: “A meno che non ci sia un provvedimento da parte delle autorità giudiziarie, non siamo noi a decidere sulle dimissioni di un paziente. Lo fa il medico che lo ha in cura, sotto la sua responsabilità. […] Occorrerebbe l'assenso del paziente stesso".

Ecco dunque che la Macaluso deposita una denuncia in Procura e i magistrati di conseguenza aprono un’inchiesta con l’ipotesi di lesioni colpose a danno di Bevilacqua. Si badi bene: al momento è solo un’ipotesi di reato.  E così i carabinieri dei NAS stanno raccogliendo nella struttura ospedaliera indizi e documentazione per verificare se le accuse sono fondate. L’obiettivo dell’esposto della Macaluso è dunque quello di far dimettere il proprio compagno da questa clinica dato che le sue condizioni non migliorano e anche perché la degenza è arrivata a costare per questi tre mesi ben 640mila euro. L’intento dunque è di ottenere quello che a lei, come convivente, è stato negato: decidere a posto del compagno il quale non è nelle condizioni psichiche per manifestare un consenso valido alle dimissione volontarie.

Il Corriere – ma non la Macaluso da ciò che ci è dato di sapere – non ci sta proprio e titola l’articolo: “Quei vincoli di affetto senza voce”. Il giornalista Paolo Di Stefano esplicita il senso del titolo: “Non ha voce poiché, si sa, la legge italiana nel 2013 come nel Medioevo, a differenza del resto d’Europa non riconosce diritti (e doveri) per le coppie di fatto”. E poi sul fatto che la sorella di Bevilacqua, l’unica parente stretta ancora in vita dello scrittore, si dimostri – a suo dire – indifferente alla condizioni del fratello, aggiunge: “La legge riconosce solo il vincolo di sangue anche quando questo non comporta alcun vincolo affettivo”. Insomma la tesi è nota: ancora una volta il convivente è discriminato a favore del coniuge o dei parenti di sangue e tutto questo sulla pelle di un povero moribondo.

Ma davvero le cose stanno così secondo la legge? No, e andiamo a dimostrarlo. Fotografiamo la vicenda da un punto di vista giuridico. Siamo in presenza di una persona legalmente capace: Bevilacqua non è stato colpito da interdizione o inabilitazione. Però di fatto non è nel pieno possesso della capacità di intendere e volere. È un po’ come quando uno fa un incidente e sviene oppure appare non essere presente pienamente a se stesso, oppure è colto da un infarto e cade in uno stato di incoscienza.
Cosa dice la nostra legge in questi casi? Come giustamente ricordava il direttore sanitario della clinica, spetta al medico o al magistrato decidere il da farsi, non a coniugi, sorelle, fratelli, amici o conviventi. In genere in queste situazioni il medico aspetta che il paziente si riprenda e così può decidere da sé se andarsene o rimanere in clinica. Nel frattempo continuare le cure: trattasi di obbligo. Se poi attualmente queste cure siano ottime o pessime lo stabiliranno i magistrati.

Quindi nessuna discriminazione in capo al convivente dato che, anche nel caso in cui la Macaluso fosse stata sposata con Bevilacqua, nulla poteva decidere al suo posto. Questo avviene – e lo ricordiamo a beneficio degli amanti del principio di autodeterminazione ad oltranza – perché solo il paziente può decidere della propria salute. Il fatto poi che ci sia una prassi – assai lodevole – volta ad interpellare coniugi, parenti e conviventi “ha un fondamento giuridico nei compiti di protezione che si riconoscono nell’ambito familiare” (si veda l’ottimo C. Leotta, Consenso informato, in Digesto delle discipline penalistiche, Utet), ma non vincola giuridicamente il medico alle decisioni del consesso di parenti e amici.

Detto ciò la Macaluso – così come un’eventuale moglie - avrebbe comunque la possibilità di far dimettere il compagno. In che modo? Se venisse nominata amministratore di sostegno (artt. 404-432 cc). E non c’è legge alcuna che possa vietarle di chiederlo. Anche in questo caso, come si può ben vedere, la legge medioevalista italiana non discrimina nessuno.

Torniamo ora sulla frase di Di Stefano: la legge italiana “non riconosce diritti (e doveri) per le coppie di fatto”. Prima nota: se la legge italiana riconoscesse ai conviventi tutti i diritti e doveri propri dell’istituto familiare, i conviventi non sarebbero più conviventi bensì coniugi. Il matrimonio è infatti dal punto di vista giuridico l’insieme di particolari diritti e doveri. Se decidi di assumerteli entrambi vieni considerato “coniuge”. Seconda nota: in realtà nella ventina e più di disegni e proposte di legge sui Pacs e simili non c’è ombra – o quasi – di doveri a cui allude, seppur tra parentesi, il giornalista del Corriere. Tutti i diritti delle coppie sposate ma non i relativi oneri. Ed invece se pretendi di vedere una partita di calcio allo stadio devi pagare il biglietto. Il resto è una furberia e un danno a chi il biglietto lo ha pagato (cioè gli sposi).

Dunque verrebbe da chiedere ai conviventi che reclamano i diritti propri degli sposi: “Perché allora non vi sposate?” Risposta quasi sicura: “Sono affari nostri”. Bene, anzi benissimo, ma dunque se sono affari vostri perché poi tirate per la giacchetta lo Stato pretendendo che ficchi il naso in affari assolutamente privati? La contraddizione è evidente.

Infine un accenno a quanto ancora Di Stefano scrive: “In Italia un lungo e solido vincolo affettivo non significa (quasi) nulla”. Di Stefano scambia l’ordinamento giuridico per la trasmissione di Maria De Filippi “C’è posta per te”, dove gli affetti e le emozioni sono il cuore del programma. Allo Stato invece importano le relazioni intersoggettive solo nel caso in cui siano oggettivamente rilevanti per il bene comune, anche se la coppia, pur sposata, non ha più nessun fremito nel cuore e l’affetto è tramontato da tempo. Lo Stato, per nostra fortuna, non è un consulente di coppia.