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MEDIO ORIENTE

Bombe in Libano, la guerra si allarga

Il sanguinoso attentato all'ambasciata iraniana a Beirut va inserito nel quadro complesso dei rapporti mediorientali, e soprattutto delle conseguenze della guerra in Siria, che fa sentire sempre più le sue rovinose conseguenze.

Esteri 20_11_2013
Attentato a Beirut

Ancora una volta Beirut ieri è stata risvegliata dal fragore delle bombe. L’area colpita è il quartiere meridionale di Bir Hassan, roccaforte di Hezbollah. Obiettivo l’ambasciata iraniana nella capitale libanese (23 morti, 146 feriti). Si è trattato di un macabro segnale alla vigilia della ripresa a Ginevra dei negoziati sul nucleare tra i 5+1, ovvero tra le grandi potenze e l’Iran? E’ stata un’azione degli “agenti dell’entità sionista” come ha affermato l’ambasciatore iraniano a Beirut? Oppure i due attentatori sono membri delle Brigate Abd Allah ‘Azzam, gruppo armato sunnita libanese affiliato a Al Qaeda, che hanno rivendicato la duplice operazione di martirio? Il tragico evento va letto in chiave interna libanese oppure nel più ampio contesto mediorientale e internazionale?

Gli interrogativi potrebbero protrarsi all’infinito, ma un dato di fatto è certo e indiscutibile: la maggior parte delle quasi duecento vittime dell’attentato sono civili. Vittime innocenti di una realtà che da anni vede il Libano nell’occhio del ciclone. Il prossimo 22 novembre si festeggeranno i settant’anni dell’indipendenza libanese dal mandato francese e, come ha sottolineato il generale dell’esercito Jean Qahwaji, il destino dei libanesi sarà quello di vivere anche questa ricorrenza “tra pericoli e violazioni della sicurezza”. Purtroppo l’instabilità è una costante della storia libanese. Nel 1975 lo scoppio della guerra civile segna in modo indelebile il paese dei cedri: da un lato la lacerazione interna tra cristiani e musulmani dall’altro, a partire dal 1976, la presenza delle truppe siriane sul proprio territorio.

Nonostante gli accordi di Taif del 1989 sanciscano il ritiro delle truppe siriane dal Libano e la deconfessionalizzazione del sistema politico del paese, il destino è ormai segnato. Nel 2005 l’assassinio dei primo ministro Rafiq Hariri riporta lo sgomento. La Rivoluzione dei Cedri che ne consegue ottiene il ritiro definitivo delle truppe siriane, anche se il regime di Assad e i suoi servizi segreti sono terribilmente vicini, considerato che la distanza tra Beirut e Damasco è di soli cento chilometri. Nel 2006 gli attacchi missilistici di Hezbollah contro Israele portano a un ennesimo scenario di guerra. Ultimo, ma cruciale, evento che riguarda sempre più da vicino il Libano, e che di sicuro fa da sfondo all’ultimo attentato, è la cosiddetta “primavera” siriana.

E’ inutile ripetere la cronologia del conflitto che affligge la Siria dal 2011, ma è indispensabile tenere presente che quanto accade nel paese di Assad non è più la lotta dei siriani contro la dittatura, contro un regime sanguinario. La Siria è diventata lo scenario di un jihad globale che vede contrapporsi non solo due assi definibili islamici, quello sunnita e quello sciita, ma che vede schierarsi da un lato o dall’altro le grandi potenze mondiali. L’asse sunnita, inizialmente capeggiato dai Fratelli musulmani, è oggi composto da questi ultimi e dalle frange radicali jihadiste, rappresentate dalla Jabhat al-Nusra e dallo Stato Islamico di Iraq e del Levante, composto prevalentemente da non-siriani.

Direttamente o indirettamente schierati con il fronte anti-Assad si trovano Arabia Saudita, paesi del Golfo, Turchia  e Stati Uniti. Dall’altro lato, il fronte sciita pro-Assad, la cui famiglia appartiene alla setta minoritaria sciita degli Alawiti, vede compattarsi Iran ed Hezbollah libanesi con la Russia. Come se ciò non bastasse, dopo la dichiarazione del jihad in Siria da parte di esponenti sunniti e sciiti, si riversano in Siria jihadisti provenienti non solo dal mondo islamico, come ad esempio gli sciiti della tribù yemenita degli Huthi, ma anche dall’Occidente. La stima dei combattenti stranieri, secondo un resoconto del luglio 2013, è di circa 6000, di cui alcune centinaia provenienti dalla Libia e dall’Egitto, circa trecento dall’Arabia Saudita e altrettanti dall’Iraq, circa cinquecento dalla Giordania, con presenze sempre più elevate di libanesi. Quanto ai jihadisti non arabi si annoverano presenze dalla Cina, dall’Australia, dalla Gran Bretagna, dalla Danimarca, dalla Francia, dalla Germania, dall’Olanda, dalla Svezia, dal Canada, dalla Russia, dall’Azerbaijan, dal Kazakhstan, dal Kyrgyzstan, dal Tajikistan, dall’Uzbekistan, dall’Austria, dal Belgio, dalla Bosnia e anche dall’Italia.

Lo scenario è quello di una guerra mondiale nella quale il campo meramente islamico interseca quello internazionale, uno scenario in cui le componenti in gioco sono molte, forse troppe, uno scenario in cui si sta perdendo di vista la popolazione siriana, composta anche da cristiani, da curdi e da un forte elemento tribale interno. 

L’attentato all’ambasciata iraniana a Beirut va assolutamente inserito nel complesso quadro appena delineato. Lo schieramento e il coinvolgimento diretto di Hezbollah con il regime di Assad ha fatto sì che il 13 novembre scorso il suo leader Hasan Nasrallah dichiarasse, in occasione della festa sciita dell’Ashura, quanto segue: “A tutti i popoli arabi del Golfo in Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Oman: Qual è l’alternativa a un accordo tra l’Iran e i leader mondiali? Una guerra regionale. […] I negoziati tra l’Iran e le potenze mondiali possono sfociare in una soluzione politica e diplomatica e questo manda su tutte le furie Netaniahu poiché ha annunciato che farà di tutto per opporsi. Sfortunatamente, alcuni stati arabi sostengono Israele nelle sue scelte fatali, proprio come rifiutano una soluzione politica in Siria, si rifiutano di trattare con l’Iran.”

Dichiarazioni che confermano la complessità della storia contemporanea del Medio Oriente. Ebbene, se a questo si aggiunge che lo scorso giugno Ahmad al-Asir, lo shaykh salafita di Sidone, ha dichiarato guerra all’esercito libanese, definendolo “sciita” e “iraniano”, se si aggiunge che in Libano si sono riversati circa un milione e mezzo di siriani, molti dei quali cristiani, la situazione non può che essere definita incandescente, un vulcano pronto a eruttare. La poetessa e giornalista Joumana Haddad ha commentato l’accaduto con un editoriale che si apre con le seguenti parole: “Avete mai avuto la sensazione di essere rinchiusi in una stanza le cui pareti si alzano sempre di più per chiudersi sopra di voi ogni giorno di più? Questo è quel che provano i libanesi attualmente, a vari livelli.” 

La riflessione, meglio l’interrogativo, l’ennesimo, che sorge spontaneo è come mai il mondo che si vede coinvolto direttamente o indirettamente in quanto sta accadendo e sconvolgendo la Grande Siria, non si accorga che ragionando sui massimi sistemi, sulle priorità economiche e politiche, si sta dimenticando le persone vere, i siriani e i libanesi, che devono convivere ogni giorno con la sofferenza, con il sangue, con l’incertezza per il proprio futuro. Sulla questione siriana si è atteso molto, troppo, sino a farla diventare una questione internazionale, sino a farla diventare una spada di Damocle pronta a cadere da un momento all’altro causando altre morti. Negli anni scorsi la poetessa libanese cristiana Nada El Hage ha dedicato una poesia al proprio paese che oggi risulta di un’attualità sconcertante e suona come un appello disperato per chi ancora volesse risvegliarsi e agire in nome dell’uomo e non delle armi:

 

Nel mio paese

Dove gli uomini per le nozze donano alle donne un giaciglio di fuoco

E donano ai bambini quando nascono un biberon di fuoco

Nel mio paese

Gli uomini costruiscono le dimore come gli uccelli

Sotto la volta del cielo

E sui rami pronti a essere arsi

 

Nel mio paese

Dove la morte indossa i panni della vita

I respiri vengono catturati al mattino

Gli uomini adorano il sapore della terra

E le donne dimenticano il sapore dei baci.

 

Nel mio paese

Dove è passato il Messia

Aerei sorvolano macerie e lamenti

Sangue purifica la terra dei Santi

 

Nel mio paese si distendono le mani

Temendo la separazione

Alla ricerca di calore

Nella speranza di incontrare Dio

Negli occhi

Nel sonno salutare

Distante dal peccato

Distante dall’uomo

Tra le braccia del settimo cielo.