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GUERRA E LETTERATURA/XIX

Calvino, comunicare il sapore aspro della vita

Calvino racconta "noi stessi, il sapore aspro della vita". Ma l’uomo non si può salvare da solo. E' sempre capace di commettere il male. Occorrerà sempre Qualcuno che lo salvi.

Cultura 25_03_2018

Nato a Cuba nel 1923, Italo Calvino partecipa alla resistenza partigiana, di cui tracce si vedono nelle prime opere. Quando il 9 settembre 1943 Sanremo è presa dai nazisti, la classe 1923 è richiamata alle armi. Costretto a prestare servizio militare, Calvino non rinuncia alla lotta antinazista. Nel giugno del 1944 si rifugia in collina e si unisce con i partigiani della Brigata alpina. Arrestato più tardi, non viene fucilato grazie ad un foglio di congedo militare contraffatto. Si unisce, poi, ai partigiani azzurri fino alla liberazione del 25 aprile 1945.

Nel Secondo dopoguerra si laurea in Lettere. Inizia la sua fervente attività di romanziere e di collaboratore con quotidiani e riviste. Negli anni in cui va di moda l’intellettuale engagé, specialmente di sinistra, sia in Europa (si pensi a Camus o a Sartre) che in Italia (basti citare Moravia), anche Calvino si iscrive al partito comunista. In seguito ai gravi fatti di Budapest (1956) il 7 agosto 1957 Calvino si dimette dal PCI scrivendo: «Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito […]. Credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d’opinione non direttamente impegnato nell’attività politica sia più efficace fuori dal Partito che dentro».

Si sposa a L’Avana nel 1964. La sua notorietà di scrittore si afferma a livello internazionale. I suoi interessi sono eterogenei e denotano sensibilità per problematiche scientifiche e politiche. Dal 1967 al 1980 vive a Parigi. Poi, tornato in Italia, colto da un ictus, muore nel 1985.

Italo Calvino è uno degli scrittori più letti nelle scuole e uno dei classici italiani più venduti nelle librerie. La sua sterminata produzione, che testimonia una vena di grande affabulatore e un vivo interesse per lo sperimentalismo nella narrazione, risente dei dibattiti aperti negli anni Cinquanta (La speculazione edilizia e La nuvola di smog) oltre che delle suggestioni dello strutturalismo e del fascino del progresso scientifico (Le cosmicomiche, Ti con zero, Palomar).

Nella scuola primaria di lui si propongono spesso le novelle (chi non ricorda la raccolta Marcovaldo) mentre nella scuola secondaria di primo grado si sottopone all’attenzione dei ragazzi la trilogia degli antenati (Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato o Il barone rampante) o i due romanzi dedicati alla Seconda guerra mondiale e alla lotta partigiana (Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo).

Ne Il sentiero dei nidi di ragno (1947) le vicende della guerra e della lotta partigiana sono presentate dal punto di vista di un bambino, Pin, di dieci anni e orfano di madre. Per questo la dimensione neorealista si mescola a quella fantastica propria del mondo dell’io narrante che vede la realtà con uno sguardo ancora legato al mondo dell’infanzia. Ecco come Calvino racconta la genesi dell’opera nella prefazione che vi allega nel 1964: «Questo romanzo è il primo che ho scritto; quasi posso dire la prima cosa che ho scritto, se si eccettuano pochi racconti. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente da un clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello di una spavalda allegria. Molte cose nacquero da quel clima, e anche il piglio dei miei primi racconti e del mio primo romanzo».

Il periodo del Secondo dopoguerra è caratterizzato da «un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico», da un grande desiderio di raccontare e da una «rinata libertà di parlare» (quasi «una smania di raccontare»): «nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio» scrive Calvino «ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle «mense del popolo», ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche».

La scrittura e il racconto nascono, quindi, non tanto dalla necessità di documentare e di insegnare, quanto dal desiderio di esprimere. Esprimere che cosa? Risponde Calvino: «Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse in quel momento sapevamo ed eravamo».

Nel Secondo dopoguerra sorge l’esigenza di scrivere il romanzo della resistenza. «Tanti grandi avvenimenti storici sono passati senza ispirare nessun grande romanzo, e questo anche durante il «secolo del romanzo» per eccellenza». Ma, nonostante questo, chi è uscito dalla guerra, sente una «responsabilità speciale». Sentendo in modo particolare l’onere di questa responsabilità, Calvino decide di affrontare il racconto «non di petto, ma di scorcio». Calvino percepisce che il pericolo maggiore sia che venga assegnata una funzione «celebrativa e didascalica» alla letteratura. A questa richiesta ecco la sua risposta: «La mia reazione d’allora potrebbe essere enunciata così: «Ah, sì, volete “l’eroe socialista”? Volete il “romanticismo rivoluzionario”? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe».

Così, ne Il sentiero dei nidi di ragno Calvino evita l’ideologismo con una storia in cui bene e male sono presenti in ogni campo, in ogni fazione. Solo quando Calvino esce dal punto di vista del bambino Pin e presenta le opinioni del commissario comunista Kim, il racconto assume i toni ingenui della divisione tra buoni e cattivi. Sarà lo stesso autore anni più tardi ad avvertirlo. Kim dice al comandante Ferriera: «Qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. […] C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? […] Tutto servirà […] a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi».

L’uomo (lo insegna la tradizione cristiana, lo ha mostrato la storia, lo verifichiamo nell’esperienza quotidiana) non si può salvare da solo, pur se nato per il bene e per l’amore, è sempre capace di commettere il male. Occorrerà sempre Qualcuno che lo salvi.