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SCIENZA E POLITICA

Clima e poveri, la politica fa più danni dei cambiamenti

Osservando i dati, appare chiaro che le emissioni di anidride carbonica sono dovute più ai paesi emergenti che non ai paesi ricchi. E i problemi ambientali più gravi sono correlati alla povertà, non alla ricchezza. Così le politiche di mitigazione stanno avendo effetti negativi sui paesi poveri. E l'enciclica sbaglia obiettivo.

Creato 19_06_2015
Grafico emissioni

Nel suo intervento di presentazione della bozza pubblicata da l'Espresso online lo scorso 16 giugno,  Massimo Introvigne evidenzia come l'Enciclica "Laudato Si''" contenga due elementi: "un «percorso etico e spirituale» di natura dottrinale e una breve rassegna preliminare di quelli che il Papa e gli esperti che lo hanno assistito considerano «i migliori frutti della ricerca scientifica oggi disponibile» (ibid.). A proposito di questo secondo elemento, il Papa tiene a precisare che «ci sono discussioni, su questioni relative all’ambiente, nelle quali è difficile raggiungere un consenso. Ancora una volta ribadisco che la Chiesa non pretende di definire le questioni scientifiche, né di sostituirsi alla politica, ma invito ad un dibattito onesto e trasparente» (n. 188)".

Proviamo di seguito a fornire qualche elemento di riflessione su questo secondo aspetto, con particolare riferimento al tema dei cambiamenti climatici, a partire da quanto il Pontefice scrive nella parte dell'Enciclica dedicata al tema OGM: "c’è bisogno di un’attenzione costante, che porti a considerare tutti gli aspetti etici implicati. A tal fine occorre assicurare un dibattito scientifico e sociale che sia responsabile e ampio, in grado di considerare tutta l’informazione disponibile e di chiamare le cose con il loro nome. A volte non si mette sul tavolo l’informazione completa, ma la si seleziona secondo i propri interessi, siano essi politici, economici o ideologici. Questo rende difficile elaborare un giudizio equilibrato e prudente sulle diverse questioni, tenendo presenti tutte le variabili in gioco" (n. 135).

Spesso, a parere di chi scrive, la discussione in tema di riscaldamento globale non risponde a questo requisito ed appare viziata da un approccio semplicistico che non consente di apprezzare tutte le sfaccettature del problema.

Partiamo dalla responsabilità delle emissioni. Si legge nell'Enciclica che il "riscaldamento [è stato] causato dall'enorme consumo di alcuni Paesi ricchi" (n. 51). 

Ora: se guardiamo al periodo che va dall'inizio della rivoluzione industriale fino ai primi decenni dopo la seconda guerra mondiale, non vi è dubbio che che la maggior parte delle emissioni fosse attribuibile ad un novero limitato di Paesi. Negli ultimi quaranta anni si è però assistito ad una radicale evoluzione di tale quadro: se nel 1971 le tre aree più ricche del Pianeta - America del Nord, Europa occidentale e Giappone - emettevano circa  il 60% della anidride carbonica, negli anni seguenti si è registrata una progressiva riduzione della loro quota che nel 2011 si è attestata a meno di 1/3 del totale.

 

Grafico emissioni

 

Pressoché l'intero aumento delle emissioni, che ha conosciuto un'accelerazione negli ultimi due decenni, è quindi da ricondursi allo sviluppo dei Paesi che partivano da livelli di reddito molto bassi, sviluppo che ha determinato, secondo i dati forniti dalla Banca Mondiale, una  riduzione della popolazione mondiale che vive in condizioni di povertà assoluta dal 52% del 1980 al 21% del 2010. Per citare ancora l'Enciclica: "la tecnologia ha posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano e limitavano l’essere umano" (n. 102).

Molto è stato fatto, ma certo non abbastanza. Quindi, come scrive Papa Francesco, ancora oggi "per i Paesi poveri le priorità devono essere lo sradicamento della miseria e lo sviluppo sociale dei loro abitanti" (n. 172). Per questo: "in attesa di un ampio sviluppo delle energie rinnovabili, che dovrebbe già essere cominciato, è legittimo optare per il male minore o ricorrere a soluzioni transitorie" (n. 165).

È questo il punto centrale delle politiche del clima: se ed in quale misura porre degli ostacoli alla crescita dei Paesi poveri al fine di ridurre le emissioni. Il contributo di quelli "ricchi" non potrà essere risolutivo: anche una radicale riduzione della quantità di gas a effetto serra ad essi riconducibile non potrebbe che avere effetti limitati; ad esempio: se le tre grandi aree sopra citate dimezzassero la CO2 prodotta, a livello mondiale le emissioni farebbero un salto all'indietro di soli pochi anni. L'intera Unione Europea che nel 1990 rappresentava un quinto delle emissioni mondiali vedrà nel 2020 il proprio peso ridotto al 7%. Ogni anno le emissioni della sola Cina crescono di una quantità analoga a quella totale di un Paese come il Regno Unito. 

"Una certa decrescita in alcune parti del mondo" (n.193) non avrebbe come conseguenza la possibilità di "crescere in modo sano in altre parti".

Peraltro, sia l'Europa che gli Stati Uniti nell'ultimo decennio hanno già intrapreso, seppure lungo direttrici diverse come vedremo più avanti, un percorso di contenimento delle emissioni. Tale evoluzione positiva interessa anche altri aspetti ambientali. Negli Stati Uniti - ed in molti  Paesi ad elevato reddito - la qualità dell'aria è radicalmente migliorata negli ultimi cinquanta anni. Oltre oceano, pur in presenza di un aumento della popolazione pari a 80 milioni di persone, la quantità di acqua consumata è diminuita rispetto al 1970, dal 1990 si è ridotto il consumo di plastica e negli ultimi anni quello di carta; il consumo procapite di petrolio è oggi inferiore del 25% rispetto al 1980.

I problemi ambientali più gravi, primo fra tutti l'inquinamento all'interno delle abitazioni, sono oggi correlati alla povertà, non alla ricchezza.

La necessità di non frapporre in capo ai Paesi più poveri ostacoli allo sviluppo sociale trova  un'analogia nell'impatto che hanno avuto molte misure adottate dai Paesi occidentali.

Come sopra anticipato, nell'ultimo decennio sia gli Stati Uniti che l'Europa hanno ridotto le proprie emissioni di anidride carbonica. Al di là dell' Atlantico ciò è avvenuto grazie allo sviluppo tecnologico "nel mercato": il gas di scisto estratto localmente è andato infatti a rimpiazzare parzialmente il più inquinante carbone nella produzione di energia elettrica. In Europa le minori emissioni sono da un lato da ricondurre alla recessione economica e dall'altro al maggior ricorso, "pianificato dall'alto", alle energie rinnovabili. Tale approccio ha fatto sì che il prezzo dell'energia elettrica crescesse rapidamente anche a causa del prelievo fiscale imposto per finanziare solare ed eolico. Nei due Paesi ove maggiore è il ricorso a tali fonti il costo dell'energia è pari a quasi quattro volte quello degli Stati Uniti. Ed a pagare il prezzo più alto di questa politica sono state le famiglie a minor reddito che hanno visto le loro bollette lievitare.

Non è peraltro questo l'unico caso di politiche di mitigazione che hanno avuto ricadute negative per i più poveri. Un'altra forma di intervento pubblico dannosa per coloro che vivono in condizioni più disagiate è stata il sussidio ai biocarburanti che ha incentivato la conversione di parte della produzione agricola destinata alla alimentazione aumentando così il prezzo del cibo e con benefici ambientali modesti se non nulli. 

 Prezzi elettricità

 

Un ulteriore esempio di politiche "benintezionate" ma che rischiano di provocare più danni che benefici ai meno abbienti sono quelle relative alla mobilità. Nella stessa Enciclica si legge "molti specialisti concordano sulla necessità di dare la priorità ai trasporti pubblici". Non vi è dubbio che nelle aree urbane centrali ad elevata densità abitativa, metropolitane, tram ed autobus possano giocare un ruolo di primo piano ma, se si allarga lo sguardo all'infuori di tale ambito, si comprende come solo l'automobile possa efficacemente rispondere alle necessità di spostamento delle persone, in particolare di quelle che appartengono alle fasce sociali più modeste che vivono e lavorano nelle periferie. È significativa a tal riguardo la chiusura di un recente articolo sul New York Times dedicato alla relazione tra povertà e trasporti: si racconta la vicenda di una famiglia che vive a Frederick nel Maryland e che grazie all'acquisto di una vecchia, inquinante auto, pagata 1.700 dollari, ha visto cambiare radicalmente in meglio la propria routine quotidiana.

Rendere più difficoltoso l'accesso all'auto può significare impedire a molte persone di uscire da una condizione di povertà: a tal riguardo è da segnalare la rapida crescita della motorizzazione - oltre 250 milioni di veicoli in più solo negli ultimi dieci anni - all'infuori dei Paesi più ricchi nei quali si è ormai raggiunta una situazione stazionaria. 

Oltre agli effetti diretti negativi sui poveri delle politiche volte a ridurre le emissioni, ve n'è un altro, più nascosto, ma non meno rilevante.

Sia l'incentivazione delle rinnovabili che dei trasporti pubblici (solo una parte minoritaria dei costi viene coperta con la vendita di biglietti ed abbonamenti) consuma risorse pubbliche che non possono essere destinate al perseguimento di altri obiettivi socialmente più meritevoli; nel caso dell'Europa, ove il prelievo fiscale sui carburanti è molto elevato, un minore uso dell'auto comporta inoltre la diminuzione delle entrate per il settore pubblico e, quindi, ancora una volta, una minor possibilità di intervenire a favore di chi si trova in maggiore difficoltà.

L'Unione Europea si è posta l'obiettivo di ridurre le proprie emissioni del 20% entro il 2020: il costo per conseguire tale risultato che porterà ad una riduzione di temperatura a fine secolo di meno di 0,1 °C  è stato stimato pari a 210 miliardi di euro. Tali risorse avrebbero potuto essere impiegate assai più utilmente per migliorare le condizioni di vita dei più svantaggiati.

Vi è infine da sottolineare come i Paesi più ricchi siano anche quelli più efficienti nello sfruttare le risorse energetiche: per ogni dollaro di ricchezza prodotto negli Stati Uniti si emettono 0,40 kg di anidride carbonica, in Europa 0,20. Nelle altre aree (che si trovano in condizioni analoghe a quelle dei Paesi ricchi alcuni decenni fa) le emissioni unitarie sono molto più elevate. Questo fa sì che sia preferibile ridurre con "l'aiuto dei Paesi che sono cresciuti molto" ( n. 172) le loro emissioni piuttosto che le nostre: a parità di risorse impiegate si potranno conseguire risultati molto migliori.

Ma, la strada maestra, come per altri problemi ambientali generati dallo sviluppo e poi brillantemente risolti, sembra anche nel caso del riscaldamento globale quella di puntare sulla tecnologia. Investire più risorse nella ricerca affinché l'energia prodotta da fonti a basso / nullo contenuto di carbonio divenga economicamente più conveniente rispetto a quella da combustibili fossili; in tale prospettiva occorrerebbe anche riconsiderare il ricorso all'energia nucleare che presenta rischi assai meno rilevanti di quanto generalmente ritenuto. Solo così potremo superare la contraddizione fra miglioramento delle condizioni di vita dei più poveri e minori emissioni.

Concludiamo, tornando a qualche decennio addietro. Verso la fine degli anni '60, prospettive "apocalittiche" molto simili a quelle che oggi vengono da alcuni proposte con riferimento al riscaldamento del pianeta, vennero ampiamente diffuse e trovarono ascolto presso molti decisori politici. Tra i più ascoltati "esperti" dell'epoca vi era il biologo Paul R. Ehrlich che pubblicò "The population bomb", bestseller nel quale sosteneva che "la battaglia per fornire cibo sufficiente all'umanità è perduta", che centinaia di milioni di persone - tra cui 65 milioni di americani - sarebbero morte a causa della fame, che vi erano buone probabilità che nel 2000 la Gran Bretagna fosse cancellata dalla faccia della Terra e che fosse dunque necessario intervenire con urgenza, anche con mezzi coercitivi, per ridurre le nascite.

Nulla di tutto questo è accaduto. La crescita economica è proseguita, la popolazione è aumentata fino a raggiungere i 7 miliardi e la malnutrizione è stata radicalmente ridimensionata. Minoritaria all'epoca fu la posizione di un economista statunitense, Julian L. Simon,  che vedeva la crescita della popolazione come un elemento positivo e correttamente previde che le condizioni materiali dell'umanità avrebbero continuato a migliorare nel futuro non "nonostante" ma anche grazie all'ulteriore crescita della popolazione.

La sua lezione sembra oggi particolarmente attuale e dovrebbe metterci in guardia dal seguire le raccomandazioni degli odierni profeti di sventura. Possiamo confidare che "la tecnoscienza, ben orientata", come già accaduto in passato sarà ancora "in grado di produrre cose realmente preziose per migliorare la qualità della vita dell’essere umano" (n. 103).