Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Marco a cura di Ermes Dovico
AMORIS LAETITIA

Comunione, a contare è la condizione oggettiva

Si può molto discutere sulla responsabilità soggettiva che determina il peccato mortale, ma ad impedire l'accesso alla comunione ai divorziati risposati è la condizione oggettiva di adulterio. Concedere la comunione a chi si trova in questa condizione significa fare il loro stesso male.

Ecclesia 18_06_2017
Comunione

Torniamo a parlare di accesso alla comunione per i divorziati risposati e per i conviventi. Chi si trova in stato di peccato mortale non può accedere alla comunione. Occorre la presenza congiunta di tre condizioni per concretarsi una condizione di peccato mortale. Materia grave: ad esempio l’adulterio. I divorziati risposati che non vivono castamente sono adulteri. Secondo criterio: deliberato consenso. L’azione che comporta una grave violazione della legge di Dio deve essere compiuta liberamente, senza condizionamenti. Terzo criterio: piena avvertenza. Il soggetto deve avere piena contezza che l’oggetto della sua scelta è gravemente lesivo dei principi morali e/o di fede. Non è sufficiente la conoscenza formale ad esempio di una norma della Chiesa che vieti l’adulterio.

A questo punto citiamo il ben noto § 305 dell’esortazione apostolica Amoris Laetitia: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa». 

Il 305 rinvia alla nota n. 351: «In certi casi, potrebbe essere anche l’aiuto dei Sacramenti. Per questo, “ai sacerdoti ricordo che il confessionale non dev’essere una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore” (Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 44: AAS 105 [2013], 1038)». «Ugualmente segnalo che l’Eucaristia “non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli” (ibid., 47: 1039)». 

Appuntiamo una nota prima di addentrarci meglio nella questione della comunione ai divorziati risposati. AL parla di “una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole”. Ciò è errato perché il peccato prevede come condizione che la scelta sia consapevole e libera. Se Tizio non è soggettivamente colpevole vuol dire che a lui non si possono addebitare il demerito delle sue azioni, ma la mancanza di responsabilità si verifica solo se ha agito non cosciente del disvalore dell’atto e/o non volontariamente. E’ per questo che la Chiesa preferisce usare l’espressione “condizione intrinsecamente disordinata” (v. omosessualità), distinguendo così il piano oggettivo da quello soggettivo.

Ma torniamo al tema principale. AL ci dice in sostanza, laddove fa riferimento ai condizionamenti e ai fattori attenuanti, che non è escluso che i divorziati risposati non siano consapevoli della gravità morale degli atti sessuali compiuti con una persona che non è il proprio coniuge e/o che l’abitudine all’esercizio di tali atti ormai li abbia così tanto condizionati che non riuscirebbero più a resistervi. Ergo se mancano la piena avvertenza e il deliberato consenso non si versa più in stato di peccato mortale e quindi, vedi nota 351, si può accedere alla comunione e ricevere validamente l’assoluzione sacramentale.  

Il concetto è esplicitato dal § 302 dell’AL: «non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante. I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere «valori insiti nella norma morale» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio – 22 novembre 1981, 33: AAS 74 (1982), 121).

Risposta: vero che i divorziati risposati potrebbero non essere in stato di peccato mortale, ma nonostante questo non potrebbero comunque lecitamente accostarsi alla comunione né alla confessione. Vediamo il perché.

In modo preliminare occorre verificare che il soggetto versi nella condizione di ignoranza invincibile. La mancanza assoluta di consapevolezza può essere nella quasi totalità dei casi superata. Se proprio non si riesce – caso più di scuola che reale - si può chiedere comunque e sempre al divorziato risposato di chiedere a Dio la grazia per comprendere la gravità del proprio stato e di obbedire alla Chiesa fidandosi di lei. L’obbedienza si esercita soprattutto quando non si è d’accordo con il proprio superiore. In merito poi ai condizionamenti che avrebbero annullato la libertà del divorziato risposato coartandolo ad avere rapporti con il partner, non si può predicare una assoluta mancanza di libertà, quasi fosse deterministicamente orientato ai rapporti extraconiugali senza possibilità di astenersi. Sopravvive sempre nel soggetto una certa porzione di libertà: su quella occorre insistere perché si ampli sempre più.

In secondo luogo chi versa nello stato di ignoranza invincibile e chi sente la propria libertà fortemente condizionata dai vizi appresi, nella quasi totalità dei casi è colpevole di essere arrivato a tal punto di ignoranza e schiavitù. Ciò a dirsi che la mancanza di consapevolezza è spesso frutto di più atti  malvagi assunti in modo consapevole. La loro reiterazione ha poi portato, colpevolmente, a tacitare la coscienza. A maggior ragione per i vizi che ormai legano la nostra libertà con vincoli strettissimi. Siamo noi i più delle volte che liberamente ci siamo stretti in queste catene. Tutto questo per dire che spesso la mancanza di consapevolezza e di deliberato consenso sono l’esito di atti consapevoli e liberi e quindi sono addebitabili alla persona, una responsabilità che può concretarsi in uno stato di peccato mortale.

Ma arriviamo al nocciolo duro della questione. Ammettiamo di trovarci di fronte un divorziato risposato o un convivente che davvero non versino in stato di peccato mortale, la cui mancanza di consapevolezza e di deliberato consenso non sia a loro in qualsiasi modo imputabile. Ugualmente non dovrebbero accedere alle Sacre Specie perché è la loro condizione oggettiva che lo impedisce. Facciamo un paio di esempi. Un bambino vuole mangiare un sasso. E’ arciconvinto che ha tutto il diritto di magiare il sasso e che gli farà bene. Purtroppo è la condizione del suo organismo che non gli permette di digerire un sasso. Se il padre gli desse il sasso ne morirebbe proprio perché il sasso è incompatibile con l’apparato digerente del figlio. Così  si esprime San Paolo: “perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti” (1 Cor., 11, 29-30). Un nota bene: San Paolo qui si riferisce non solo alla morte spirituale, ma anche a quella fisica.

Un altro esempio assai attuale. Una coppia di omosessuali non può accedere al matrimonio anche se intimamente convinta che abbia tutto il diritto di sposarsi. E’ la condizione in cui versano i due partner che vieta loro di convolare a nozze. E’ impossibile far incontrare omosessualità e matrimonio.

In merito alla comunione per i divorziati risposati: è la condizione oggettiva di adulterio – al di là della percezione soggettiva e della supposta mancanza di libertà – che è antitetica alla sacralità del Corpo di Nostro Signore. Comunicarli significa ledere la loro persona e la persona di Cristo. C’è un ordo (un orientamento) voluto da Dio (es. i rapporti sessuali sono leciti solo nel rapporto di coniugio) e vi sono atti che oggettivamente – al di là della consapevolezza dell’illiceità professata dall’agente – sono di per sé contrastanti con questo ordo e che pongono la persona in una condizione incompatibile con questo ordo. Sono atti intrinsecamente disordinati e tali rimangono anche se i divorziati risposati non riescono a riconoscerlo. Come dunque occorre impedire che qualcuno dia un sasso ad un bambino, così occorre impedire di comunicare i divorziati risposati.

Ecco infatti cosa dice la Familiaris Consortio sul punto: “La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia” (84). Il motivo del divieto non è di carattere soggettivo – consapevolezza e libertà – bensì oggettivo – la condizione in cui si hanno rapporti sessuali con una persona che non è il proprio coniuge, condizione incompatibile con la comunione.

In merito alla confessione occorre poi ricordare che la stessa perché sia valida, anche nel caso di peccati veniali, deve soddisfare almeno due criteri: il chiaro pentimento e la volontà di emendarsi. Ora il divorziato risposato che crede fermamente che la nuova relazione sia cosa buona come potrebbe pentirsi? E se non si pente come potrebbe emendarsi? Compito del confessore e di tutti gli operatori pastorali allora non è quello di assecondare il divorziato risposato e il convivente nelle loro scelte, lasciandolo nell’ignoranza, bensì di risvegliare la sua coscienza e la sua libertà, trovando il modo migliore per farlo (ecco il vero discernimento). Al malato grave ignaro della sua malattia dobbiamo dire di curarsi, altrimenti morirà.