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CAMBIO DI SESSO

Consulta, la Terza Camera del Parlamento

La sentenza sul cambio di sesso conferma una tendenza ormai consolidata. La Corte Costituzionale non giudica più soltanto la costituzionalità o meno di una legge, ma sui temi etici si trasforma in potere legislativo. Una deriva molto pericolosa.

Vita e bioetica 13_06_2014
Corte Costituzionale

Nel 2005 Alessandro Bernaroli sposa Alessandra. Quattro anni dopo vola in Thailandia e cambia sesso. Il comune di Bologna allora si vede costretto ad annullare le nozze nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 4 della legge 164/82 sulla rettificazione di attribuzione del sesso: il cambiamento di sesso “provoca lo scioglimento del matrimonio” (agli occhi della Chiesa invece il vincolo matrimoniale rimane valido). I due non ci stanno a subire questo “divorzio di Stato” e ingaggiano battaglia legale. In primo grado il tribunale dà loro ragione ma solo per cavilli burocratici. Il Ministero dell’Interno allora fa ricorso e vince perché, secondo la Corte di Appello, la diversità di sesso è presupposto indispensabile per l’esistenza del vincolo coniugale. Nel giugno dell’anno scorso la causa approda in Cassazione la quale rimanda il tutto alla Corte Costituzionale perché secondo gli ermellini non si può imporre il divorzio a nessuno. Ieri [11 giugno] la Consulta si è infine pronunciata.

Sentenza attesa con molta ansia non solo ovviamente dai due ex coniugi ma anche da molte sigle dell’associazionismo gay che tra l’altro avevano tentato invano di costituirsi in giudizio. Infatti la posta in gioco era alta così come lo stesso Alessandro aveva sottolineato qualche giorno fa: “Se la Corte Costituzionale ci darà ragione sarà il precedente per introdurre anche in Italia il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Saremo le prime spose gay”.

La Corte da una parte ha confermato lo scioglimento del matrimonio, motivato dall’"interesse dello Stato a non modificare il modello eterosessuale del matrimonio (e a non consentirne, quindi, la prosecuzione, una volta venuto meno il requisito essenziale della diversità di sesso dei coniugi)". Dall’altra però dichiara incostituzionale quella parte della legge 164/82 sulla rettificazione del sesso in cui non prevede, “ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata”. Insomma il matrimonio è annullato però si deve prevedere per casi come questi un’alternativa forma di convivenza non matrimoniale “che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore”. Ciò affinchè "l'esercizio della libertà di scelta compiuta dall'un coniuge con il consenso dell'altro, relativamente ad un tal significativo aspetto della identità personale, non sia eccessivamente penalizzato con il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto". La Consulta dunque sollecita il legislatore "con la massima sollecitudine" a trovare una "forma alternativa (e diversa dal matrimonio) che consenta ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica ad una condizione di assoluta indeterminatezza", forma di convivenza che però deve garantire tutte le tutele previste dal precedente vincolo coniugale. La palla ora ritorna alla Cassazione che nel pronunciarsi dovrà tenere conto delle indicazioni della Corte costituzionale.

Qualche considerazione. Da una parte la Consulta formalmente non ha aperto alle “nozze” gay perché ha confermato il divorzio automatico laddove uno dei due coniugi decida di cambiare sesso. Su altro fronte però ha proposto la creazione dell’istituto della convivenza tra persone dello stesso sesso (Alessandro è e rimarrà per sempre maschio, ma per il diritto è ormai una “donna”) e lo ha equiparato dal punto di vista sostanziale all’istituto del matrimonio perché i giudici chiedono che a tale nuova forma di convivenza vengano riconosciuti gli stessi diritti (e i doveri?) che vi sono in capo ai coniugi. Sostanzialmente un matrimonio di fatto omosessuale. Già nel 2010 i giudici della Consulta avevano dichiarato che a due persone dello stesso sesso “spetta il diritto di vivere liberamente una condizione di coppia ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il rinascimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. Anche in quell’occasione chiesero al legislatore di intervenire in materia.

In secondo luogo la Consulta è ormai diventata la Terza Camera del Parlamento italiano. La sua competenza non è più solo quella di dichiarare se una norma è incostituzionale oppure no, ma ormai comprende anche il potere di proporre al Parlamento veri e propri disegnini di legge. Una indipendenza quella dei giudici a senso unico: svincolati dalle pressioni dei legislatori, ma liberi al contrario di fare pressing giurisprudenziale su questi ultimi.

Più in particolare pare ormai che le norme da varare per la convivenza civile siano divise tra Parlamento e Consulta ratione materiae: al primo spettano questioni come l’economia, il lavoro, le relazioni internazionali, il voto democratico, etc. Alla Consulta invece tutti i principi non negoziabili: la fecondazione artificiale (è di un mese fa l’apertura all’eterologa), l’identità sessuale, il matrimonio, etc.

Infine, come verificato anche nelle motivazioni della sentenza sull’eterologa pubblicate un paio di giorni fa, la legittimazione da parte del Parlamento di scelte di vita personalissime nasce dalla semplice constatazione che è così voluto dai soggetti interessati. Perché considerare legittima l’eterologa? Perché – così si esprimevano i giudici della Corte Costituzionale - esiste la libertà della coppia di essere genitori, scelta libera nata negli anfratti più reconditi della coscienza individuale e dunque da rispettare con sacra deferenza in sede legislativa. E in modo analogo: perché riconoscere giuridicamente la convivenza omosessuale? Perché “l’esercizio della libertà di scelta” di cambiare sesso – scelta che interessa un “tal significativo aspetto dell’identità personale” – non deve comportare la perdita di quei privilegi che avevano come coniugi. Impedire alla coppia di vedersi riconosciuto lo stesso status sociale che avevano prima dello scioglimento del matrimonio, tramite forme particolari di convivenza, sarebbe violenza di Stato bella e buona. E’ la solita musica: i desideri, gli aneliti, i sogni sono diventati diritti. O forse sarebbe meglio dire che gli incubi di qualcuno sono diventati “diritti” per tutti.