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INTERVISTA

"Cos'è la sedazione profonda e quando si può praticare"

Dopo la morte di Marina Ripa di Meana, avvenuta senza spiegazioni precise sulla sua condizione, si è generata una confusione fra eutanasia e sedazione profonda. Il dottor Bulla spiega quando quest'ultima è etica, come viene effettuata e con quale fine, al di fuori del quale non va contemplata, come quando lo scopo è provocare la morte.

Vita e bioetica 20_01_2018

Dopo la morte di Marina Ripa di Meana, che ha paragonato le cure palliative e la sedazione profonda all'eutanasia, mentre volutamente non è stato spiegato né il suo stato di vita, né i sintomi che presentava, né come sia morta, sono sorti dubbi su cosa sia avvenuto realmente. Claudio Bulla, medico internista esperto di cure palliative, spiega quando la sedazione profonda è etica, in quale momento normalmente viene effettuata e con quale fine, al di fuori del quale non va contemplata, come quando lo scopo è provocare la morte.

Che cos’è precisamente la sedazione profonda? 
In genere si parla di sedazione palliativa. E’un atto di cura che consiste nel diminuire o togliere la coscienza ad un malato, con il suo consenso, quando la sofferenza non può più essere controllata dalle migliori cure disponibili. Può essere temporanea o continuativa, parziale oppure completa, cioè profonda. La prima si effettua quando, ad esempio, in un momento della giornata un sintomo della malattia del paziente è molto intenso e i farmaci non riescono a controllarlo, in questo caso si domanda al malato se vuole dormire, almeno la notte o qualche ora durante il giorno. Talora al risveglio il sintomo può essere più tollerabile. Se invece il sintomo è veramente refrattario è opportuno iniziare una sedazione permanente in cui la coscienza viene tolta in maniera continuativa fino al decesso naturale. 

Quanto può durare una sedazione profonda, ossia quando i sintomi di una malattia diventano intollerabili e incontrollabili?
La letteratura parla di un intervallo che va da un giorno a 13 giorni dall’inizio della sedazione fino alla morte. Ma nella mia esperienza questo tipo di sedazione si applica quasi sempre nelle ultime ore di vita. I sintomi sono intollerabili quando il paziente non ne porta più il peso nonostante tutti i migliori tentativi terapeutici di alleviarli.

Come giudica l'utilizzo della sedazione profonda quando non è necessaria al controllo del sintomo?

Ci sono linee guida pubblicate dalla Società Italiana di Cure Palliative: dicono che è necessario informare e raccogliere il consenso del paziente. La sedazione profonda è necessaria solo quando esiste un sintomo intollerabile che non risponde nemmeno alle migliori terapie sintomatiche. Diversamente non è possibile effettuarla, anzi è eticamente sbagliato perché la coscienza è un bene indispensabile della persona, anche alla fine della vita, un momento in cui molte persone hanno paura di morire e desiderano poter mantenere un contatto con la vita che resta e con i propri cari. 

Pio XII disse che era lecito sopprimere i dolori con l'uso dei narcotici “se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali”, riferendosi “unicamente” alla volontà di “evitare al paziente dolori insopportabili”.
Il sintomo per sua definizione è soggettivo. Ci sono delle scale di valutazione che cercano di definire l’entità mediante scale numeriche, ma in buona parte è solo il paziente che ci può dire il livello di sofferenza che patisce. Il problema è comprendere la percezione che il paziente ha del dolore: un disturbo che a me pare di modesta entità può essere percepito molto intenso dal malato. È vero anche il contrario, un sintomo che a me sembra insostenibile può non esserlo per il malato. Ricordo una giovane signora che negli ultimi cinque, sei giorni prima di morire presentava un vomito incoercibile causato da un’occlusione intestinale, il sintomo era refrattario e le migliori terapie somministrate non erano in grado di controllarlo. Pensavo fosse una situazione insopportabile, ma lei mi disse che non voleva perdere la coscienza e preferiva mantenere quel grave disagio pur di poter continuare a comunicare con la figlia e con le amiche. Fu una situazione imbarazzante anche per l’équipe di cura: alcuni di noi avrebbero voluto non rispettare queste disposizioni della signora e procedere alla sedazione senza il suo consenso.


Se la coscienza è un bene fondamentale della persona, quale altro bene oggettivo da tutelare giustifica la possibilità di sacrificarla?
Un sintomo refrattario grave che genera una sofferenza intollerabile a giudizio della persona che muore. Le faccio un altro esempio: la mancanza del respiro genera un’angoscia enorme nei malati. Quando i comuni rimedi utilizzati (morfina, cortisone, ansiolitici) non bastano a togliere il sintomo e l'angoscia che esso provoca, è doveroso proporre al malato la sedazione. Il bene oggettivo da tutelare è il dovere di alleviare le pene di un sofferente. Essa ha quindi questo fine unico, che ha poi come conseguenza la perdita della coscienza senza accelerare la morte che avverrà naturalmente. Dai dati presenti in letteratura questo trattamento si applica a circa il 20 per cento delle persone che muoiono, in genere nell’imminenza della morte stessa.

La sedazione profonda può essere usata anche per accelerare la morte? Se sì come?
Se l’organismo della persona non dà segni di una morte imminente, e magari la prognosi di sopravvivenza è oltre le tre-sei settimane (esistono scale di valutazione prognostica in cure palliative), effettuare la sedazione profonda, magari sospendendo l'idratazione e l'alimentazione, è un atto moralmente illecito che accelera la morte. 

È possibile usare una sedazione profonda per accelerare la morte senza privare la persona dell'alimentazione dell'idratazione?
Ripeto, la finalità della sedazione non è quella di provocare la morte ma di curare la sofferenza. La morte può essere accelerata se viene utilizzato un dosaggio dei farmaci sedativi sproporzionato alla necessità di diminuire o abolire il sintomo. È chiaro che se il fine del medico è solo di controllare il sintomo è difficile che si ecceda volontariamente nell’aumentare il dosaggio del farmaco.

È etico usare la sedazione dopo aver tolto, come accadde nel caso di Welby, il respiratore?
E’etico sedare il paziente che in assenza di ventilazione meccanica muore in stato di gravissima sofferenza. Altra questione è l’opportunità di cessare volontariamente la ventilazione artificiale lontano dall’imminenza della morte. Tutti i miei pazienti con il ventilatore sono morti con la ventilazione in funzione, staccata dopo la morte o negli ultimi minuti di vita. Non ci sono casi in cui il ventilatore è così fastidioso da dire “stacchiamolo perché fa più male che bene al paziente”. A quanto compresi dalla stampa, quella di Welby fu una scelta non determinata dal fatto che la respirazione meccanica fosse più dannosa che utile al suo benessere fisico.

Cosa pensa della legge sulle Dat?
In un recente passato ho subito delle contestazioni perché pubblicamente avevo affermato che molte volte i medici sedano i malati senza aver ottenuto il loro consenso e per questo fui chiamato in giudizio presso l'ordine dei medici della mia provincia. Le raccomandazioni delle società scientifiche di cure palliative dicono che la sedazione va discussa con il paziente. Questa legge insiste molto sulla necessità di un consenso informato. Nonostante questo ho anche una certa impressione che nel tentativo di evitare forme di accanimento terapeutico si apra piuttosto la strada a possibili soluzioni rinunciatarie, di possibile abbandono terapeutico, richiesto dal malato e acconsentito dal medico. Niente a che vedere con la filosofia delle cure palliative che si preoccupano invece di offrire ai malati la possibilità di terminare la propria vita in modo naturale, con minor sofferenza possibile e salvaguardando il valore della relazione tra chi cura e chi viene curato. Con questa legge si voleva abolire il cosiddetto “paternalismo” medico affermando l’autodeterminazione della persona malata, ma il rischio è quello di invertire l’asimmetria tra i due soggetti. La legge apre la possibilità infatti che il malato imponga al medico cosa possa fare e cosa non possa, senza appello. Non per niente il termine originale “dichiarazioni” è stata sostituita con “disposizioni”, molto più coercitiva sul comportamento del medico. Non per niente la legge non prevede neppure l’obiezione di coscienza da parte del curante.