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PERSECUZIONI

Così muore il cristianesimo in Iraq

L'ultimo fatto è il marchio a Mosul sulle abitazioni dei cristiani, costretti ad andarsene o a convertirsi. Ma è solo l'ultimo atto di una persecuzione andata crescendo dal 2003 e che con l'arrivo dei jihadisti dell'ISIS sta arrivando alla soluzione finale, nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale.

Esteri 18_07_2014
Mosul

Tra il 16 e il 17 luglio il sito iracheno assiro www.ankawa.com ha pubblicato la triste notizia dell’ennesimo caso di persecuzione dei cristiani e delle minoranze non sunnite in Iraq. L’ingresso dei terroristi dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante nella città di Mosul, la seconda città irachena dopo la capitale Baghdad, che impongono l’applicazione della sharia a tutti gli abitanti ha avuto come diretta conseguenza l’attacco immediato a quel che resta della comunità cristiana nella città.

Già nel febbraio 2014 a Raqqa, in Siria, lo Stato Islamico di Iraq e del Levante aveva imposto, tramite un comunicato, ai pochi cristiani rimasti regole e restrizioni che ricalcavano il cosiddetto patto di Omar – citato anche nello Statuto di Hamas. In base a questo documento, dalla dubbia autenticità, ma considerato autentico dai jihadisti di ogni estrazione, non solo i cristiani non devono costruire nuovi monasteri, chiese o conventi nelle città e nelle zone circostanti, non devono impedire ai loro parenti di convertirsi all’islam qualora lo desiderino, non devono vestirsi come i musulmani, non devono chiamarsi con nomi musulmani, non devono esporre il crocefisso né nessun loro libro sacro innanzi ai musulmani; ma devono anche versare la tassa di capitazione (la jizya) al fine di ottenere la “protezione” dello Stato islamico.

Mosul 

Foto 1

Ebbene, se non si ha la certezza che a Mosul sia stata richiesta la jizya, le immagini riportate da Ankawa mostrano la “marchiatura” delle case dei cristiani con la lettera araba nūn che è l’iniziale dell’aggettivo nasrani, cristiano. A seconda del caso accanto alla lettera nūn  si ha la scritta sākin, residente (foto 1), a indicare che il cristiano vive ancora, seppur temporaneamente, nella propria dimora, oppure la scritta ‘aqārāt al-dawla al-islamiyya, “immobili dello Stato islamico” (foto 2), a indicare il “passaggio di proprietà”. La stessa modalità è stata utilizzata per segnalare anche le dimore degli sciiti che vengono individuate dalla lettera rā’   iniziale dell’aggettivo rāfidi, letteralmente “colui che rifiuta” e che è il dispregiativo utilizzato dai sunniti per gli sciiti. Nei giorni scorsi l’ISIS sempre a Mosul avrebbe reso noto il divieto, in nome dell’islam, a consumare alcolici e a fumare sigarette.

Mosul

Foto 2 

L’Iraq, al pari della Siria e più in generale dell’intero Medio Oriente, sta purtroppo assistendo alla scomparsa della presenza cristiana sul proprio territorio. I cristiani si sono trovati innanzi a due scelte: la migrazione o la persecuzione. L’Index mondial de la persecution, a cura dell’ONG internazionale Portes Ouvertes, presenta dati inconfutabili: nel 2014, così come nel 2013, l’Iraq si colloca al quarto posto tra i paesi più violenti nei confronti dei cristiani a fronte dell’ottavo posto che occupava nel 2011 e del diciassettesimo del 2010. 

Merita particolare attenzione poiché valido spunto di riflessione su quanto sta accadendo a Mosul e nella vicina Ninive, la toccante intervista rilasciata al quotidiano libanese al-Nahar da Emil Shimun Nona, vescovo dei Caldei a Mosul. Il religioso conferma, in primo luogo, quanto appena affermato sul numero in costante calo dei cristiani. Nel momento in cui i terroristi dell’ISIS sono entrati a Ninive “i cristiani erano già pochi: rimangono solo 50 famiglie, circa 200 persone, a fronte di una presenza originaria di 4000 cristiani.” Emil Shimun Nona narra altresì che “le milizie armate hanno assediato la sede del Patriarcato caldeo a Mosul, l’hanno circondata e vi hanno issato il loro stendardo. […] Hanno fatto irruzione nella cattedrale siro-ortodossa sottraendo il crocifisso e due giorni fa sono entrati in un’altra chiesa.” Narra anche di come, in nome di una presunta iconoclastia islamica, abbiano distrutto una statua della Vergine Maria all’ingresso del Patriarcato. 

Il vescovo ribadisce che la condizione attuale non rappresenta una novità, che la persecuzione non è iniziata con l’ISIS, ma ha subito un’escalation a partire dal 2003 ovvero con la prima ondata jihadista che ha sconvolto il paese nell’epoca post-saddamiana. Il macroscopico errore della gestione americana aveva licenziato l’esercito del dittatore dandolo in pasto al terrorismo islamico. Il primo vero attentato risale al 26 giugno 2004 quando fu lanciata una bomba a mano contro la Chiesa del Santo Spirito nel quartiere di al-Akhà proprio a Mosul. 

Il 1 agosto 2004 sei autobomba esplodevano a pochi minuti di distanza l'una dall'altra davanti a cinque chiese cristiane, quattro a Baghdad e una a Mosul. A pochi giorni di distanza, il 7 agosto 2004, l’episcopato caldeo e una chiesa armena ortodossa di Mosul venivano distrutte da esplosioni. Il 29 gennaio 2006 alcune autobomba esplodevano davanti all’ambasciata vaticana e davanti a quattro chiese a Kirkuk e Baghdad. Il 9 ottobre il sacerdote siro-ortodosso Paulos Iskandar veniva rapito a Mosul e sarebbe stato ritrovato decapitato due giorni dopo.  La stessa sorte sarebbe toccata il 26 novembre a Mondher Saqa, pastore di una chiesa cristiana evangelica di Mosul, che fu rapito e ritrovato morto il giorno seguente. 

Il 3 giugno 2007, sempre a Mosul il giovane parroco caldeo Raghid Aziz Ganni, la cui automobile fu fermata da uomini armati, viene freddato con i tre suddiaconi che lo accompagnavano. Il 6 gennaio 2008, vigilia del Natale ortodosso, a Mosul la chiesa caldea di San Paolo fu semidistrutta da un'esplosione. Sempre a Mosul vennero presi di mira anche un orfanotrofio delle Sorelle Caldee e il convento delle suore domenicane a al-Jadida. Lo stesso giorno a Baghdad, nella zona settentrionale di Za’franiyya, furono colpite una chiesa ortodossa, la chiesa caldea di Mar Girgis, la chiesa caldea di San Paolo, dove fortunatamente il dispositivo viene disinnescato prima dell’esplosione, e un convento di suore. Tre giorni dopo esplodeva un'autobomba nei pressi della cattedrale caldea del Sacro Cuore e la chiesa di Sant'Efrem dei siro-ortodossi a Kirkuk. 

Il 29 febbraio 2008 fu rapito un altro prelato, l'arcivescovo caldeo di Mosul, Paulos Faraj Rahho, mentre i suoi tre accompagnatori vennero uccisi. Come un copione che si ripete, il cadavere dell'arcivescovo sarebbe stato ritrovato il 12 marzo.  Dalla città sul Tigri, nei mesi successivi, fuggirono migliaia di famiglie cristiane, soprattutto verso il Libano e la Siria. Il 5 aprile 2008 a Baghdad venne ucciso a colpi d'arma da fuoco il sacerdote siro-ortodosso Youssef Adel. Dopo i delitti del 2008 si assisté a una nuova ondata migratoria, oltre 15.000 cristiani abbandonarono il Paese alla volta di Siria, Libano e Turchia. Tra il 2005 e il 2009, i cristiani fuggiti da Baghdad, Bassora e Mosul si sono rifugiati in Kurdistan, nella capitale Erbil. Qui il sobborgo di Ankawa, cittadella cristiana di Erbil, è passato da 8.000 a oltre 35.000 abitanti cristiani. Ad Ankawa hanno trasferito la propria sede persino il seminario di Baghdad e la facoltà teologica della capitale.

Il 31 ottobre 2010 si è avuto quello che è stato definito “il più sanguinario attacco dalla fine della seconda guerra mondiale contro i cristiani iracheni”: un gruppo di terroristi ha fatto irruzione nella chiesa siro-cattolica di Nostra Signora della Salvezza di Baghdad, nel quartiere di Karrada, e ha preso in ostaggio i fedeli. Il successivo blitz congiunto delle forze di sicurezza irachene e soldati americani si è trasformato in un massacro con almeno 58 morti e 75 feriti. L’attentato è stato in seguito rivendicato dall’Organizzazione per lo Stato Islamico in Iraq, l’allora braccio iracheno di Al Qaeda, con un comunicato in cui si affermava quanto segue: “Un gruppo di mujahidin ha effettuato un’incursione contro uno degli osceni rifugi dell’idolatria, utilizzato da sempre dai cristiani in Iraq come quartiere generale nella lotta contro l’islam e nel sostegno di coloro che combattono la religione”. 

In Iraq la persecuzione religiosa è ormai così sistematica che la Commissione USA sulla libertà religiosa ha da tempo inserito il paese nella lista dei “paesi particolarmente preoccupanti” . 

Per ritornare all’attualità e all’occupazione di Mosul da parte dell’ISIS, il vescovo rimarca anche l’assenza del governo centrale quando denuncia la scomparsa improvvisa e non annunciata dell’esercito e delle forze di polizia. Non solo, ma sottolinea che, al momento dell’intervista, “ci ha contattati solo il governatore di Mosul, ma non ha affrontato la questione della sicurezza poiché di pertinenza del governo centrale”.  

La condizione di quel che rimane dei cristiani in Iraq è quindi da un lato minacciata dalle armi del terrorismo dell’ISIS, dall’altro aggravata dall’indifferenza del governo iracheno che è sempre più impegnato ad assicurare la propria sopravvivenza. Non fa ben sperare nemmeno la recente nomina a portavoce del Parlamento di Salim al-Jabburi del Partito islamico iracheno, espressione politica dei Fratelli musulmani. 

Purtroppo nei prossimi anni qualora l’Iraq, così come la Siria, dovesse perdere posizioni nella triste classifica dell’Index mondial de la persecution potrà essere solo dovuto all’assenza di cristiani sul territorio. La speranza è che i cristiani del Medio Oriente che hanno riparato in Occidente non si ritrovino a dovere affrontare una simile persecuzione da parte dei jihadisti che dall’Europa e dagli Stati Uniti sono partiti per Iraq e Siria e che, se non troveranno la morte combattendo il jihad sulla via di Allah, ritorneranno a casa ben addestrati, militarmente e ideologicamente, e colmi di odio per l’altro, chiunque esso sia.