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DECOLONIZZAZIONE

Costa d'Avorio a rischio catastrofe umanitaria

A 50 anni dall'indipendenza, in Africa c'è ben poco da festeggiare. Come dimostra la crisi politica in Costa d'Avorio.

Attualità 08_12_2010
Elezioni in Costa d'Avorio

Cinquanta anni fa in Africa 17 stati ottenevano l’indipendenza. Il decennio successivo avrebbe segnato la fine del dominio coloniale europeo in gran parte del continente. Il 2010 avrebbe quindi dovuto essere un anno di festose celebrazioni. Invece il bilancio non certo positivo del mezzo secolo trascorso ha smorzato i toni, inducendo anzi alcuni stati a commemorare l’anniversario senza solenni cerimonie pubbliche, a dir poco inopportune date le condizioni di vita in cui versano milioni di cittadini, stremati da conflitti e carestie: si pensi alla Somalia, alla Repubblica Democratica del Congo, al Madagascar.

Almeno in un caso, però, quello della Costa d’Avorio, l’anniversario sembrava coincidere con un traguardo storico tale da giustificare i più entusiastici festeggiamenti. Il paese è infatti andato finalmente alle urne per scegliere il nuovo capo di stato, dopo sei rinvii che hanno protratto di cinque anni il mandato del presidente Laurent Gbagbo, scaduto nel 2005. L’appuntamento era tanto più importante in quanto indispensabile per porre fine a una crisi politica apertasi nel settembre del 2002 con un fallito colpo di stato in seguito al quale la Costa d’Avorio si è divisa in due: le regioni settentrionali in mano alle forze antigovernative raccolte sotto la sigla Forze Nuove, il sud fedele a Gbagbo e, dal 2004, una missione di peacekeeping ONU, la Onuci, lungo la linea di confine, per separare i contendenti.

Ma invece, ancora una volta, tutte le speranze sono svanite nel volgere di poche ore. Poiché il 31 ottobre, al primo turno, nessun candidato ha raggiunto la maggioranza relativa, si è reso necessario un ballottaggio, svoltosi il 28 novembre, al quale hanno partecipato il presidente uscente Gbagbo, primo con il 38% dei voti, e il leader dell’opposizione Alassane Ouattara, secondo con il 32%. Alla chiusura dei seggi, lo spoglio delle schede è iniziato, procedendo a rilento, in un clima teso, mentre i due avversari denunciavano brogli: secondo Gbagbo, nel nord, tuttora controllato da Forze Nuove, innumerevoli irregolarità hanno compromesso l’attendibilità dei risultati favorevoli a Ouattara; quest’ultimo, da parte sua, ha accusato il governo di aver impedito ai propri sostenitori di recarsi alle urne.

La Commissione elettorale avrebbe dovuto annunciare i risultati definitivi entro la mezzanotte del 1° dicembre. Lo ha fatto il giorno dopo, proclamando vincitore Ouattara con il 54% dei voti. Ma il Consiglio costituzionale, i cui componenti, va detto, sono in gran parte eletti dal capo dello stato, ha subito smentito, rivendicando il diritto di decretare l’esito del voto, come in effetti dispone la costituzione ivoriana in caso di ritardo da parte della Commissione elettorale. Poi, il 3 dicembre, ha invalidato le schede di nove dipartimenti del nord e del centro del paese aggiudicando la vittoria con il 51% delle preferenze a Gbagbo il quale si è affrettato a prestare giuramento il 4 dicembre, insediandosi malgrado le proteste delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea che hanno invece salutato Ouattara come legittimo vincitore. Più prudente, l’Unione Africana, mentre Ouattara giurava a sua volta in una lettera indirizzata al Consiglio costituzionale e mentre il governo ivoriano ordinava la chiusura delle frontiere e la sospensione delle trasmissioni di tutte le emittenti straniere, ha avviato una missione d’urgenza con il compito di “trovare una soluzione legittima e pacifica alla crisi” incaricandone l’ex presidente del Sudafrica, Thabo Mbeki.

La prudenza dimostrata dall’organismo panafricano, che ha evitato di prendere posizione, deriva da un fatto di cui anche la comunità internazionale dovrà tener conto: in realtà nessuno è in grado di escludere che dei brogli ci siano stati e che abbiano avuto un ruolo decisivo nel determinare il successo di Ouattara e nemmeno che Gbagbo abbia approfittato dei propri poteri per avere la meglio sull’avversario. È una situazione molto delicata, dunque, ma per nulla insolita in Africa dove il controllo dell’apparato statale consente quasi sempre a chi lo detiene una assai disinvolta amministrazione delle risorse nazionali a cui nessuno rinuncia volentieri, in considerazione dei benefici finanziari che ne ricava.

Una mediazione internazionale potrebbe portare a un governo di unità nazionale che comprenda maggioranza e opposizione disposte a spartirsi cariche di governo e relativi privilegi. Tra i casi più recenti di contestazione dei risultati elettorali, risoltisi appunto in questo modo, quelli del Kenya e dello Zimbabwe, nel 2008, hanno avuto effetti particolarmente drammatici aprendo crisi politiche durate mesi, che hanno provocato numerose vittime e immensi danni economici e sociali tuttora non del tutto sanati.

In Costa d’Avorio sarebbe con tutta probabilità una catastrofe umanitaria perché il paese, pur essendo uno dei maggiori produttori mondiali di cacao, è già in serie difficoltà, dopo otto anni di conflitto che gli accordi di pace del 2007 non hanno evidentemente risolto: 30 anni fa il prodotto interno lordo pro capite era di 2.864 dollari, oggi non arriva a 1.700. La povertà che colloca la Costa d’Avorio, un tempo modello di sviluppo e “perla” dell’Africa Occidentale, al 149° posto dell’Indice dello Sviluppo Umano dell’Undp, ha conseguenze dolorosissime: il tasso di mortalità materna è uno dei più alti del mondo, 470 decessi su 100.000 nati vivi, e 114 bambini su mille non raggiungono i cinque anni.