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LIBERTÀ RELIGIOSA

Da Manhattan al mondo, la Dichiarazione è un'onda

In poco più di un anno ha raccolto mezzo milione di firme a favore di vita, famiglia e libertà di credere.

Attualità 03_12_2010
Robert P. George

L’iPhone è l’ultima delle meraviglie umane, secondo solo all’iPad, e però dal parco delle loro applicazioni che fan la gioia di grandi e piccini è inspiegabilmente scomparsa quella della Dichiarazione di Manhattan (in originale The Manhattan Declaration: A Call of Christian Conscience), immessa sul mercato il 14 ottobre.

Forse che non abbia passato gli esami del “politicamente corretto”? Pare infatti che il lancio dell’applicazione ora scomparsa abbia suscitato le ire della “comunità” definita internazionalmente con la sigla GLBT (o all’inglese LGBT), e cioè lesbiche, gay, bisessuali e transgender (da non confondere con il gustoso BLT, il panino americano guarnito di pancetta arrostita, lattuga e pomodori che discenderebbe dai sandwich inglesi del tè di era vittoriana, insomma quasi un “tea party” a difesa del diritto naturale).

Per chi infatti non lo ricordasse, la “Dichiarazione” è un manifesto che afferma con forza e fermezza la «sacralità della vita, del matrimonio tradizionale e della libertà religiosa», lanciato da più di 150 leader protestanti, cattolici e ortodossi il 20 novembre 2009 nel cuore della tentacolare Grande Mela. Fra gli estensori spiccano Charles “Chuck” Colson (l’ex “squalo” dell’entourage di Richard M. Nixon [1913-1994], l’unico ad aver fatto del carcere per lo scandalo Watergate, ma lì trasformato dalla fede in un predicatore protestante apostolo dei carcerati), il teologo evangelical Timothy George e il giurista cattolico Robert P. George [nella foto], che la Marcia per la Vita edizione 2010 ha “incoronato” guida del mondo antiabortista.

In poco più di un anno la “Dichiarazione” ha raccolto quasi mezzo milione di firme tra personalità di rilievo (fra cui vescovi cattolici) e semplici cittadini del mondo, vanta opportune imitazioni a Westminster, nel Regno Unito, e a Canberra, in Australia, e chiunque la può sottoscrivere dal sito Internet (www.manhattandeclaration.org). Insomma, è già un movimento di portata mondiale che può solo continuare a ingrandirsi. E peraltro di natura davvero eccezionale. Anzitutto quest’affermazione d’intenti unisce in modo non banale, e con ben pochi precedenti, quei cristiani diversi che su altre questioni litigano non poco portandoli a rispondere assieme a una emergenza morale e sociale gravissima.

Ovvio, si dirà, sono cristiani, e poi la “Dichiarazione” è solo un proclama. Mica vero. Con i tempi che corrono, non è affatto scontato che i cristiani mainline abbiano le idee chiare su questioni così. In secondo luogo, oltre all’aborto e al “matrimonio” omosessuale, i cristiani uniti della “Dichiarazione” denunciano pure il divorzio, la cui gravità non è invece sempre riaffermata come dovrebbe da chi dovrebbe. Infine lo statement di Manhattan confessa senza vergogna che la fede religiosa ha funzione pubblica, pure quando è privata. Che il diritto a credere è un bene di tutti e che svolge un ruolo sociale, fosse pure quello del solo o dell’ultimo credente rimasto. Alla faccia degli USA come patria dell’intimismo privatistico, del “muro di separazione” fra Chiese e Stato, e della laicità equidistante. Secondo i padri della Dichiarazione di Manhattan, infatti, qualsiasi costruzione che prescinda dal diritto alla vita e dalla famiglia naturale, o che li stravolga, finisce per autodistuggersi.

E questo è un fatto evidente anche per i non credenti, da che deriva che la “Dichiarazione”, pur promossa dalla sensibilità cristiana, è una base di confronto non parolaio con chiunque mostri buona volontà. Ora, che questo outreach program, reso improcrastinabile per i tempi che corrono, sorga dalla maturità dei cristiani è certamente una di quelle cose che fa meditare. Anche i non cristiani.