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EDITORIALE

Dal Muro del Pianto al Muro di Buraq

La decisione dell'Unesco di adottare per il Monte del Tempio a Gerusalemme il nome musulmano invece di quello ebreo, è certo un omaggio alle potenze islamiche che finanziano l'organismo internazionale, ma non promette nulla di buono per ebrei e cristiani.

Editoriali 17_10_2016
Muro del Pianto

In un tempo in cui i maschi sono destinati a non essere più tali e le femmine nemmeno, ma ciascuno può danzare a suo piacere fin dall’infanzia la danza del cambiamento che annulla identità e persone, i nomi non hanno importanza. Cambiano seguendo le giravolte del desiderio.

Nel mondo della realtà effettuale invece i nomi indicano l’essenza delle cose. Che esistono, hanno vita, esercitano potere e hanno influenza su di noi. Per questo è importante conoscerli. Prima di iniziare la sua missione di profeta, di liberatore dalla schiavitù egizia, Mosè che tituba (e ne ha ben donde) insiste nel chiedere a Dio il suo nome: come ti chiami? A Mosè Dio rivela il nome. Nome impronunciabile per gli ebrei. Perché a quel nome è connessa la terribile potenza dell’Altissimo. Anche all’arcangelo Raffaele mandato da Dio a salvare Tobia dalla sua cecità, il santo uomo timorato di Dio - e per questo molto perseguitato -, chiede con insistenza il nome. Nell’Apocalisse il Re dei Re trionfante “porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui”.

L’importanza e la bellezza del nome. Gerusalemme: Città della pace. Città del gran sovrano. Desiderio del cuore. Luogo del sacrificio di Isacco, del regno di Davide, dell’erezione del Tempio dove abita il Santo dei Santi. Gerusalemme è il cuore pulsante dell’ebraismo di tutti i tempi. Ma anche del cristianesimo di tutti i tempi. Gerusalemme è la città in cui Gesù Cristo, il Messia tanto atteso, compie le promesse fatte da Dio al popolo eletto: Gesù muore, risorge, ascende al cielo a Gerusalemme. La Pentecoste avviene a Gerusalemme. Nell’Apocalisse Giovanni guarda ed “ecco l’Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattro mila persone che recavano scritto il suo nome e il nome del Padre suo”. 

Dal 637 Gerusalemme passa sotto il dominio arabo e sulla spianata del Tempio i musulmani costruiscono 2 moschee per ricordare il terzo luogo santo dell’islam: quello in cui Maometto vola in sella a Burak per poi salire verso il cielo. Subito dopo la conquista, nel 637, il califfo Omar offre ai cristiani protezione (la pagheranno con una tassa, come da noi usa fare la mafia) a patto che rispettino rigorosamente le regole di un patto da lui stabilito. Il patto, che condanna i cristiani a una lenta scomparsa, comincia così: “Non costruiremo [noi cristiani] nelle vostre città o fuori da esse nuovi monasteri, chiese, o eremi; non ripareremo edifici religiosi caduti in rovina né restaureremo quelli che si trovano nei quartieri musulmani delle città”. Il califfo non ha fatto in tempo a mettere piede in Palestina che già tutte le città sono sue. Perché dove arriva il vero Dio, Allah, niente è più come prima e mai più potrà tornare come prima. Pena il disonore che cadrebbe su Allah se non riuscisse a conservare in suo potere i territori via via conquistati.

In questi giorni l’Unesco ha stabilito che l’area del Tempio con quello che ne resta, cioè il Muro del Pianto, non debba più chiamarsi col nome ebraico ma con quello musulmano: “al Buraq”. Il nostro governo, dopo i matrimoni omosessuali imposti con voto di fiducia, si è astenuto, di fatto approvando le esigenze delle potenze islamiche, molto ben rappresentate all’Unesco, da loro lautamente finanziato.

I nomi contano e bisogna usare quelli giusti. Dal cambiamento di nome dell’area del Tempio, ebrei (e cristiani) debbono aspettarsi qualcosa di buono?