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CRISI USA

Detroit, un fallimento chiamato debito

Il giudice rifiuta di concedere la bancarotta, ma la decisione è solo rimandata: la città di Detroit ha un debito di più di 18 miliardi di dollari. E questo mentre l'industria privata è in netta ripresa. La colpa è di 50 anni di politica fondata sulla spesa pubblica.

Esteri 21_07_2013
Detroit

Detroit è fallita. Non può andare in bancarotta perché la giudice della corte del Michigan, Rosemarie Aquilina, ha bocciato la richiesta, dichiarandola incostituzionale (rispetto alla Costituzione del Michigan). Ma resta il fatto che la città è fallita, che lo si voglia ammettere o meno.

Fra i vari casi di città perdute negli Stati Uniti, questo è sicuramente il più grande e il più grave di tutti. Riguarda una delle più popolose metropoli d’America. Il debito cittadino ammontava a più di 18 miliardi di dollari. I segnali del fallimento erano impressionanti. Il 40% della città era già al buio: finiti i soldi per l’illuminazione pubblica. Chiamare i pompieri, in caso di incendio o altre emergenze, è diventata un’impresa, con tempi di attesa di un’ora: finiti i soldi per i vigili del fuoco. I pensionati erano in piazza tutti i giorni: finiti i soldi per pagare le pensioni. Un quarto dei suoi abitanti aveva già preso la via dell’emigrazione, in altre città e stati. Detroit è diventata una città pericolosissima, con il peggior tasso di criminalità in tutti gli Stati Uniti: finiti i soldi per la polizia locale.

Per uscire da questo incubo metropolitano, era stato nominato dallo stato del Michigan un commissario straordinario, Kevyin Orr. In questo modo, i Repubblicani al governo dello stato, hanno cercato di porre rimedio alla crisi con una politica di tagli drastici sulle spese e sul personale. Ma era ormai troppo tardi per transare con i creditori, ormai infuriati dai mancati pagamenti. Kevyin Orr aveva proposto loro una condizione difficile da accettare: rinunciare al 90% dei loro crediti, prendendo 10 centesimi per ogni dollaro che era loro dovuto. I creditori che si sono impuntati di più, facendo saltare il tavolo, sono stati i fondi pensione, rappresentanti dei pensionati cittadini, prime vittime della crisi amministrativa. E allora: bancarotta. Non c’era altro da fare. Il governatore dello stato del Michigan, Rick Snyder, ieri ha annunciato l’inevitabile. Poi, in serata, è arrivata a sorpresa la sentenza della corte del Michigan, che ha accolto il ricorso presentato sempre dai fondi pensione di Detroit.

I Repubblicani, esponendosi mediaticamente, si sono assunti la responsabilità della bancarotta cittadina più grande d’America. Ma è loro la colpa? La grande città industriale è stata governata dai Democratici dal 1962 e tuttora ha un sindaco democratico, Dave Bing, in carica dal 2009. Dal 1962 ad oggi i Democratici hanno governato la città, come al solito, basandosi su politiche di spesa pubblica. Da cui deriva il vero problema di Detroit: un debito di oltre 18 miliardi di dollari che non si riesce più a ripagare. Contando sulla presenza di un’amministrazione democratica alla Casa Bianca, che era stata pronta a stanziare 80 miliardi di dollari per evitare il collasso dei giganti dell’industria automobilistica, l’amministrazione democratica cittadina non ha messo mano alle politiche dei tagli. Col risultato che i soldi sono finiti. In caso di bancarotta sarebbe spettato a Barack Obama decidere se aiutare Detroit con fondi federali, oppure lasciare che la città potesse riprendersi con le sue sole forze.

Se dovesse prevalere la logica del “too big to fail” (troppo grande/importante per fallire) e iniziassero ad arrivare i fondi federali, Detroit tirerebbe un sospiro di sollievo nel breve periodo, ma a lungo termine la sua bancarotta sarebbe il precursore del default degli Stati Uniti. “Perché Detroit sì e noi no?” chiederebbero città in bancarotta come Vallejo, Stockton, Mammoth Lakes e San Bernardino. Dalle tasche dei contribuenti americani dovrebbero sgorgare soldi a fiumi per tappare tutte le falle. Contrarre altri debiti federali sarebbe controproducente, considerando che nei soli primi quattro anni di Obama, il debito pubblico Usa è cresciuto di 6mila miliardi di dollari, arrivando alla cifra record di 16mila miliardi. Salvare Detroit con fondi federali non sarebbe solo un errore economico, ma anche politico. Prima di tutto, vorrebbe dire non ammettere la causa della crisi: il debito pubblico. Il fallimento di Detroit, infatti, non è dovuto (per quanto lo si legga sui quotidiani) alla crisi del settore privato automobilistico. La Chrysler/Fiat va bene. Il New York Times ne parla addirittura come di un “miracolo” economico. Tutti e tre i giganti dell’auto di Detroit, non solo Chrysler, ma anche General Motors e Ford, si sono riprese dalla grande crisi del 2008-2009, ricominciando a produrre Pil. Quel che non ha funzionato, dunque, è stata proprio la gestione del potere da parte dei Democratici, con le loro politiche di spesa pubblica e indebitamento. Coprire un debito (locale) con un altro debito (nazionale) avvierebbe un circolo vizioso da cui è molto difficile uscire.

Qual è l’alternativa? Molto dolorosa, nel breve periodo: tagli drastici al personale, tagli a stipendi e pensioni, vendita dei beni e dei servizi pubblici, probabilmente anche la polizia verrebbe (almeno in parte) privatizzata. Ma non è una morte. E’ semmai una rinascita, nel lungo periodo. Nella cultura e nel diritto statunitensi, il fallimento non è recepito come un crimine da punire (come in Italia), ma come un’esperienza importante da cui imparare e ripartire. Il mercato procede sempre e inevitabilmente per tentativi ed errori. Dagli errori si apprendono nuove soluzioni. Detroit, fallendo, avrà l’occasione di rinascere.

Per ora, la corte del Michigan, respingendo la richiesta di bancarotta, ha congelato il tutto e rimandato questa drammatica decisione. La sentenza del giudice Aquilina è tra l’altro passibile di sospetti di politicizzazione. “Non si onorerebbe l’impegno del presidente (Obama, ndr) che ha salvato (le compagnie auto, ndr) dalla bancarotta”, ha dichiarato in tribunale. Ha detto anche, dopo aver letto la sentenza, che il presidente ne possiede una copia. “Io so che la sta leggendo”, ha aggiunto esplicitamente, come a voler sottolineare un servizio reso (da un magistrato) al comandante in capo. La Aquilina ricopre una carica elettiva, in uno Stato in cui i sindacati hanno un grande peso. In passato è stata anche l’assistente di un senatore democratico del parlamento Michigan. E’ dunque dichiaratamente di parte e con questa sentenza potrebbe aver tolto le castagne dal fuoco al presidente Obama. Ed evitato una figuraccia colossale dei Democratici a livello locale. Ma la sua sentenza ha solo rimandato, non cancellato, il caso Detroit. Perché una decisione di un giudice non può negare la realtà di un debito di 18 e passa miliardi di dollari che non può più essere ripagato.