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Dietro al terrorismo in Libia lo zampino del Cairo

Un documento dell'intelligence libica accusa il governo egiziano e il presidente Mohamed Morsi di essere coinvolti nell’attacco condotto l’11 settembre scorso da un gruppo di miliziani islamisti al consolato statunitense a Benghazi.

Esteri 29_06_2013
Documento intelligence Libia

La notizia, se confermata, è di quelle destinate a suscitare scalpore e a influire pesantemente sulla politica di Washington (e dell’Europa) nei confronti del mondo arabo. Un documento dell’intelligence libica tradotto dall’arabo dall' analista Raymond Ibrahim accusa il governo egiziano e il presidente Mohamed Morsi di essere coinvolti nell’attacco condotto l’11 settembre scorso da un gruppo di miliziani islamisti al consolato statunitense a Benghazi. Attacco nel quale vennero uccisi 4 americani incluso l’ambasciatore a Tripoli, Chris Stevens, il cui corpo venne brutalmente oltraggiato.

La traduzione del rapporto degli 007 di Tripoli, datato 26 giugno, apparso su numerosi siti internet in lingua araba  e pubblicato dal quotidiano kuwaitiano Al Ra ’i, riferisce esplicitamente di una “cellula egiziana” coinvolta nell’attacco la cui presenza è stata accertata dalle indagini delle autorità di Tripoli. Il rapporto, firmato dal Direttore della National Security libica, Mahmoud Ibrahim Sharif, e indirizzato al Ministro degli Interni, è basato su “confessioni di sei egiziani arrestati sulla scena del crimine” e aderenti al movimento Ansar al-Sharia, gruppo salafita costituitosi durante la guerra civile del 2011 e responsabile di numerosi attacchi terroristici in Libia.

Nel corso degli interrogatori i jihadisti egiziani hanno confessato che la pianificazione degli attentati e dell’attacco al consolato americano così come i fondi necessari all’organizzazione sono da ricondurre a numerose importanti figure politiche, religiose e del mondo degli affari egiziani. Tra questi il presidente Mohamed Morsi, il candidato salafita alle elezioni presidenziali egiziane Hazim Salih Abu Ismail, l’uomo d’affari saudita Mansour Kadasa (proprietario della tv satellitare egiziana al-Nas vicina ai Fratelli Musulmani) e i predicatori jihadisti Sheikh Muhammad Hassan e Safwat Hegazi. Quest’ultimo è noto per i suoi sermoni jihadisti e grande sostenitore di Morsi del quale lanciò l’anno scorso la campagna presidenziale annunciando che “ripristinerà il Califfato con Gerusalemme come sua capitale”.

Secondo l’intelligence di Tripoli tutto il fronte islamico egiziano, salafiti e Fratelli Musulmani insieme, sosterrebbe la destabilizzazione  della Libia. Uno scenario che, se dovesse trovare conferme, sembrerebbe indicare la fondatezza di quanti sospettano che la contrapposizione tra i due movimenti sia per lo più fittizia (e non solo in Egitto) ma funzionale a raccogliere i consensi delle frange più povere e conservatrici arabe (i
salafiti) e al tempo stesso accattivarsi il sostegno del mondo Occidentale con un approccio più moderato (i Fratelli Musulmani). Il rapporto dell’intelligence libica, che recentemente ha segnalato il radicarsi di gruppi legati ad al-Qaeda nel sud del Paese, rappresenta in questa ottica un segnale importante per l’Occidente confermando quindi da un lato l’assurdità del conflitto del 2011 con il quale la Nato ha deposto il regime di Gheddafi mettendo il Paese alla mercé degli islamisti e dall’altro il doppio gioco dei nuovi regimi arabi, moderati a parole ma jihadisti e fomentatori del terrorismo nei fatti.

Il precipitare della situazione in Libia con il moltiplicarsi negli ultimi giorni
degli attacchi degli estremisti islamici ai militari e degli scontri tra milizie rivali (anche a Tripoli) che hanno portato ieri alla rimozione del ministro della Difesa, Mohammed al-Bargathi, potrebbe quindi risultare alimentato dall’estero probabilmente anche con l’obiettivo di emettere in difficoltà gli interessi occidentali nel Sahel e minacciare il regime laico algerino, l’unico riuscito a sopravvivere non solo alla primavera araba ma anche a 20 anni di lotta contro gli estremisti islamici. Proprio ieri le forze armate algerine sono state poste al massimo livello di allerta perché si temono incursioni di gruppi terroristici armati provenienti da Tunisia, Libia e Mali. Secondo le fonti militari citate dal quotidiano al-Khabar le probabili incursioni hanno come obiettivo l'esecuzione di attentati pianificati da molti mesi mentre negli ultimi giorni  in una serie di operazioni lungo le frontiere l'esercito algerino ha ucciso sette miliziani islamici.

La drammaticità della situazione è dimostrata anche dalla “fuga” degli americani dal Paese. Washington non ha una strategia né una politica per la stabilizzazione della Libia e si limita a schierare i marines a Sigonella pronti a evacuare diplomatici e connazionali qualora la situazione precipitasse. Un impasse che ha indotto Barack Obama a chiedere al premier italiano Enrico Letta di “dare una mano” in Libia come aveva già chiesto il segretario di Stato John Kerry con la titolare della Farnesina Emma Bonino. Roma ha garantito il massimo impegno a Washington nonostante la destabilizzazione della Libia sia stata causata proprio dagli americani insieme agli anglo-francesi. Sono stati loro, con l’intervento militare iniziato nel marzo 2011, ad aprire la strada ai jihadisti. La risposta italiana alla Casa Bianca non si è comunque fatta attendere e giovedì Letta incontrerà a Palazzo Chigi il premier libico Ali Zeidan.