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LA MORTE DELL'ATTORE

Dylan e i nostri '90 a metà di tutto

La morte di Luke Perry, il Dylan di Beverly Hills. Bello, ma non maledetto, bravo, ma non bravissimo. Sempre a metà. Simbolo dei nostri '90, età di mezzo tra un secolo non nostro e un millennio che non ci apparterrà mai del tutto. 

Fuori schema 05_03_2019

Muore Dylan di Beverly Hills 90210 e cosa fai? Se sei nato nel '77 come prima cosa apri Spotify. All out 90s, una di quelle playlist che ti mettono mainconia solo a scorrere i titoli: Don't look back in anger, Mr Jones, Come mai, More than words. Se poi arriva Dolores con Linger, lei che non c'è già più, allora guardi fuori dal finestrino mentre la campagna brianzola si schiarisce e aspetti. Cosa? Di scendere giù. Ma nel frattempo cerchi di ricordare: dov'era? Com'era? Quand'era che...?

Ci sono immagini che proiettano icone alle quali la tua vita è strettamente legata. Per complicità più che per affetto. E' solo che Dylan era una di queste icone. Non per Luke Perry, poveretto, requiescat in pace, ma per quello che era per la nostra generazione. Mica l'uomo, il simbolo. Invece dopo 30 anni, dopo averlo idealizzato, lo scopri dalle bacheche delle tue compagne di liceo che lo adoravano e un po' ti stupisci di come eravamo. Intanto però anche lui era un uomo: un matrimonio fallito, due figli, una nuova compagna, i genitori al capezzale, il lavoro che non era così brillante. La vita, insomma. 

Costretto a strappare una particina nel nuovo kolossal di Tarantino per dimostrare di essere ancora al top. Lui. Lui! Che le ha fatte stramazzare tutte al suolo con quello sguardo da bello, ma senza il maledetto. Bello e basta. Una metà di James Dean, ma qualche cosa di molto più virile di Justin Bieber. Bravo, ma non bravissimo da essere consacrato nell'Olimpo. Perfetto simbolo della decade che l'ha consacrato. Una metà sempre di qualcosa. Come noi che ci siamo fatti tra i 13 e i 23 anni in quei fugaci anni '90.

Al crepuscolo di un secolo che non era il nostro e agli albori acerbi di un nuovo millennio che non ci apparterrà mai del tutto. 

Nati analogici con la cartella di cuoio e diventati digitali mentre arrivava l'età adulta con il primo Ericsson dotato di sportellino. Noi che le ricerche le facevamo in biblioteca, ma abbiamo finito l'università accomodati sul web. Noi, che le lettere d'amore le scrivevamo ancora con la mano emozionata, ma non ci abbiamo messo molto a sostituirle con gli audio di Whatsapp, con la goffaggine dei 40enni. E l'esperienza dei 40enni.

Muore Dylan, che solo a noi dava l'idea di una bellezza apollinea, perenne e indistruttibile, ma per tutti gli altri era ed è anonimo. La nostra cifra immatura e superficiale per cercare l'eternità. Però dimezzata. Come la sua morte. Nè per eccessi di divismo nè per serena vecchiaia, ma per malattia. A metà del cammino, quando puoi già guardarti indietro, ma scruti l'orizzonte confidando che ce ne sia ancora davanti di molto altro. E forse è questo che ci fa paura e ci colpisce. 

Cosa resta? Resta la solita, scontata, immarcescibile e granitica speranza. Citofonare: vita eterna. Per questo siamo fatti. Anche per chi come noi è diventato grande in un'era di passaggio.