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Emilia Romagna

Emilia Romagna, regione bancomat per le associazioni Lgbt

La legge regionale contro le discriminazioni di genere riduce la persona alle sue scelte e orientamenti, fonda le norme su aspetti mutevoli della personalità e punisce il reato di opinione.

Gender Watch 03_08_2019

Nella distrazione dei più e con la colpevole disinformazione di alcuni, una settimana fa la Regione Emilia Romagna votava a maggioranza la “Legge regionale contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere” (clicca qui e qui). La Regione non ha ancora pubblicato ufficialmente il testo. Per il nostro commento ci rifacciamo a quello licenziato nella seduta dell’11 luglio 2019, sapendo che nelle sedute successive non ha subito modifiche. Per brevità esaminerò solo alcuni aspetti che ritengo altamente significativi.

Ai “Principi e finalità” della legge è dedicato l’art. 1, che al 1° comma così recita: «La Regione Emilia-Romagna […] promuove e realizza politiche, programmi ed azioni finalizzati http://demetra.regione.emilia-romagna.it/al/class/pck_images.php?idimg=54ffc996e2c1493487c5e53c1ddf3de3_02&idrev=b1a67c30-80e0-c7d2-e294-5d2c84720e57a tutelare ogni persona nella propria libertà di espressione e manifestazione del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere, nonché a prevenire e superare le situazioni di discriminazione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica». Non solo accetta acriticamente, ma dà riconoscimento giuridico-sociale all’“identità di genere” e a “orientamenti”.

Queste due espressioni ricorrono in quasi tutti gli articoli. Prescindo dal contenuto erotico-genitale degli orientamenti. Mi soffermo solo su un aspetto: l’orientamento per natura sua è cangiante, mutevole e in pari modo l’identità di genere – a detta dei suoi stessi fautori – è fluida. Orientamenti e identità di genere non sono dati oggettivi come il sesso, l’etnia, la razza, la data di nascita, né sono dati oggettivabili come le competenze culturali e professionali o gli handicap. L’ordinamento giuridico si fonda su dati oggettivi o oggettivabili, non su aspetti cangianti e mutevoli.

Facendo costante riferimento alle categorie di “identità di genere” e “orientamenti”, la legge regionale riduce la persona umana alla sua scelta e al suo orientamento, indipendentemente dal contenuto di tale orientamento. Visione altamente dannosa perché giustifica qualsiasi condotta compulsiva, e rischia di produrre personalità psicologiche confuse, indeterminate e insicure, che si fermano ai propri orientamenti pulsionali senza armonizzarli nell’identità sessuale e nella ragione.

L’art. 2, intitolato “Interventi in materia di politiche del lavoro, formazione e aggiornamento professionale e integrazione sociale”, al comma 1° dice: «La Regione e gli enti locali […] adottano interventi tesi a contrastare atti e comportamenti discriminatori nei confronti delle persone in ragione dell'orientamento sessuale o dell'identità di genere, mediante la promozione di specifiche progettualità a sostegno delle vittime di discriminazioni nell'ambito delle politiche attive del lavoro, di formazione e riqualificazione professionale nonché per l'inserimento lavorativo». E al comma 2°: «La Regione e gli enti locali, nei codici di comportamento e nelle attività di formazione e aggiornamento del personale, promuovono parità di trattamento di ogni orientamento sessuale e identità di genere, anche mediante il contrasto degli stereotipi discriminatori e di un linguaggio offensivo o di dileggio». Al comma 3: «Ai fini della presente legge per stereotipi discriminatori si intendono, nel pieno rispetto della libertà di pensiero, di educazione e di espressione costituzionalmente garantiti a tutta la cittadinanza, i pregiudizi che producono effetti lesivi della dignità, delle libertà e dei diritti inviolabili della persona, limitandone il pieno sviluppo».

Quindi, la Regione si impegna a contrastare condotte chiamate “dileggio”, “linguaggio offensivo” e “i pregiudizi che producono effetti lesivi della dignità, delle libertà e dei diritti inviolabili della persona, limitandone il pieno sviluppo”. Le espressioni “dileggio” e “linguaggio offensivo” sono troppo generiche, non sono definite e circoscritte dalla legge regionale. Quindi possiamo ragionevolmente sospettare che vogliano comprimere la libera manifestazione del pensiero, garantita a tutti i cittadini dall’articolo 21, 1° comma, della Costituzione. Infatti ogni opinione che sia contraria alle rivendicazioni dell’area LGBTQI (cioè lesbica, gay, bisessuale, transessuale, transgender, queer, questioning e intersex) può rientrare nella generica espressione “dileggio” “linguaggio offensivo”.

La legge all’art. 2, comma 3 definisce gli stereotipi discriminatori: «Si intendono, nel pieno rispetto della libertà di pensiero, di educazione e di espressione costituzionalmente garantiti a tutta la cittadinanza, i pregiudizi che producono effetti lesivi della dignità, delle libertà e dei diritti inviolabili della persona, limitandone il pieno sviluppo». Notare la clausola di salvaguardia: «nel pieno rispetto della libertà di pensiero, di educazione e di espressione costituzionalmente garantiti a tutta la cittadinanza». Ma notare anche che lo stereotipo discriminatorio è un pregiudizio lesivo dei diritti individuali, e il pregiudizio consiste in una idea o opinione precostituita, così dicono i vocabolari della lingua italiana.

Quindi la legge regionale contrasta, censura, stigmatizza – non azioni esterne lesive di altri – ma le semplici opinioni dei cittadini, opinioni lesive di altri. Possono esistere pregiudizi lesivi di un altro che non si traducano in comportamenti? Se sono pregiudizi che danno vita a condotte lesive, perché la legge regionale non definisce e non sanziona direttamente le condotte lesive? Se sono pregiudizi che non danno vita a condotte lesive, sono meri pregiudizi, meri convincimenti. E chi giudicherà che una mia idea è lesiva di un altro? Forse la semplice percezione dell’altro? È un passo verso l’introduzione del reato di opinione.

Altro aspetto ricorrente nella legge (cf. artt. 2, 3, 4, 5, 6) è l’impegno della Regione a sostenere – cioè pagare con i soldi pubblici (cf. art. 4, c. 2) – progetti, iniziative funzionali a contrastare stereotipi motivati dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale. All’art. 4, c. 2 è detto esplicitamente: «La Regione può avvalersi della collaborazione, anche concedendo contributi, di organizzazioni di volontariato e di associazioni iscritte nei registri previsti dalla legislazione vigente in materia, impegnate in attività rispondenti alle finalità di cui alla presente legge». Come se i fatti di Bibbiano fossero accaduti in vano.

L’art. 4 intitolato “Promozione di eventi culturali” al comma 1 recita: «La Regione e gli enti locali […] promuovono e sostengono eventi socio-culturali che diffondono cultura dell'integrazione e della non discriminazione, al fine di sensibilizzare la cittadinanza al rispetto delle diversità e di ogni orientamento sessuale o identità di genere». Quest’articolo è funzionale a finanziare con soldi pubblici manifestazioni “di ogni orientamento sessuale o identità di genere”. Non c’è bisogno della zingara per individuare queste manifestazioni. Si tratta dei gay pride. Dai recenti fatti di cronaca sappiamo che sono manifestazioni di strada contrarie al buon costume e alla pubblica decenza, e in quanto tali vietate dall’art. 21 della Costituzione.

Con il pretesto lodevole di «favorire inclusione sociale, superamento degli stereotipi discriminatori, prevenzione del bullismo e cyberbullismo motivato dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere» (art. 3, c. 1) la Regione promuove e finanzia progetti per formare e aggiornare insegnanti e genitori (art. 3), medici, infermieri e operatori dei servizi sociali (art. 5) mediante l’inserimento attivo di «organizzazioni di volontariato e associazioni […] impegnate in attività rispondenti alle finalità di cui alla presente legge» (art. 6, c. 2). Quali saranno queste organizzazioni di volontariato e associazioni specializzate nelle tematiche LGBTQ?

È una legge bancomat, perché è molto ragionevole che la semplice lettura di tale documento faccia sorgere un sospetto: la legge regionale è funzionale a finanziare con soldi pubblici le associazioni del mondo LGBTQ.
È una legge pass-partout: perché l’ente pubblico Regione Emilia Romagna incoraggia, finanzia e accredita le associazioni che promuovono l’ideologia gender perché siano attive in molti ambiti, tra cui ricordo quello della scuola, dello sport, dell’educazione, della cultura, dei servizi sociali e dei servizi sanitari.

Tutto ciò – come enuncia l’art. 1 – per «prevenire e superare le situazioni di discriminazione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica». Ma se leggiamo i dati raccolti dall’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), organismo composto dalla Polizia di Stato e dall’Arma dei Carabinieri, ci accorgeremo che in poco più di 8 anni, cioè dal 10/09/2010 al 31/12/2018, le segnalazioni di crimini di odio segnalate a tale organismo sono state pari a 2.532. Se ricondotte a una media annuale, si hanno 253 l’anno. Di queste 2.532 segnalazioni solo 1.114 sono reati di matrice discriminatoria. E se andiamo a leggere l’origine di tali reati di odio osserviamo che nel 59,3% dei casi si tratta dell’etnia o della razza di appartenenza della vittima, nel 18,9% del suo credo religioso, nel 13% del suo orientamento sessuale, nell’1% della sua identità di genere, nel 7,8% della sua disabilità.

Se prendiamo solo orientamento sessuale e identità di genere arriviamo al 14% dei casi per un totale di 212 casi (197+15) in 100 mesi su base nazionale, cioè 25 casi l’anno su base nazionale. Considerato che in Emilia Romagna risiede il 7,39% della popolazione italiana, possiamo stimare che i crimini di odio segnalati all’OSCAD originati da orientamento sessuale e identità di genere siano pari a 1,85% l’anno. Si tratta davvero di una vera emergenza regionale che richiede un intervento legislativo e un congruo finanziamento.

Qualsiasi atto di violenza e di ingiusta discriminazione va sempre condannato. Ma non siamo in presenza di un’ondata di violenza ai danni di una categoria di persone. Un principio fondamentale che governa la produzione normativa è che le leggi devono essere emanate solo in caso di reale necessità, per soddisfare e recepire reali e concrete esigenze della collettività, nascenti dall’effettiva esigenza di regolamentare aspetti particolari della vita di relazione o dell’azione della Pubblica Amministrazione, nel chiaro intento di perseguire sempre e comunque il bene comune e non singoli interessi settoriali.

Ma anche questo ragionevole aspetto è stato serenamente violato.

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