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Fra Usa e Iran è guerra di sanzioni e di minacce

Si è innalzato in questi giorni il livello di scontro fra Stati Uniti e Iran. A pagarne le conseguenze saremo certamente anche noi italiani, fin da subito, con un rialzo dei prezzi del petrolio. Ma è anche possibile, per il prossimo futuro, una recrudescenza del terrorismo islamico di matrice sciita, anche al di fuori del Medio Oriente.

Esteri 24_04_2019
Hossein Salami

Si è innalzato in questi giorni il livello di scontro fra Stati Uniti e Iran. A pagarne le conseguenze saremo certamente anche noi italiani, fin da subito, con un rialzo dei prezzi del petrolio. Ma è anche possibile, per il prossimo futuro, una recrudescenza del terrorismo islamico di matrice sciita, anche al di fuori del Medio Oriente.

Dopo aver inserito la Guardia Rivoluzionaria nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, per strangolarne l’economia (oltre che un corpo militare, i pasdaran sono anche una vera potenza economica in Iran), l’amministrazione Trump ha colpito anche Hezbollah, il partito armato sciita, legato al regime di Teheran, che domina la politica del Libano. Con una mossa inedita, il Dipartimento di Stato è ricorso al programma Rewards for Justice, promettendo 10 milioni di dollari per chiunque fornisca informazioni sui finanziatori del gruppo terrorista. Il programma era solitamente utilizzato per ottenere informazioni su terroristi internazionali ricercati. Questa è la prima volta che viene impiegato per applicare meglio delle sanzioni economiche.

A completare il quadro è l’annuncio, sempre di ieri di un nuovo stadio delle sanzioni sul petrolio iraniano. Trump ha infatti deciso di non rinnovare le esenzioni finora concesse a otto Paesi (Grecia, Taiwan, Cina, India, Turchia, Giappone, Corea del Sud e Italia) per l’importazione di petrolio iraniano. L’obiettivo è quello di azzerare completamente l’export petrolifero, principale fonte di proventi per il regime di Teheran. Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha confermato che non vi saranno proroghe dopo il primo maggio e che l’amministrazione americana sta già discutendo con le nazioni coinvolte, per capire come rinunciare alle importazioni di Teheran. Sono in corso trattative anche con i produttori di petrolio arabi del Golfo, affinché aumentino la produzione per compensare il mancato output di petrolio iraniano. Nel frattempo i prezzi del petrolio hanno registrato un immediato rialzo.

Lo scopo dell'amministrazione Trump non è puramente e semplicemente punitivo, per il (vero o presunto) mancato rispetto degli accordi sul nucleare da parte dell'Iran. Gli Usa vogliono costringere il regime di Teheran a tornare al tavolo negoziale e accettare nuove condizioni. L'accordo sul nucleare, infatti, si limitava a congelare per un decennio il programma nucleare (dichiaratamente solo civile, secondo le accuse di Usa e Israele anche militare). Quello a cui aspira l'amministrazione americana, invece, è un nuovo accordo bilaterale che azzeri il programma atomico e includa anche lo stop al programma missilistico e la fine del sostegno iraniano a organizzazioni terroristiche nel Medio Oriente.

La Repubblica Islamica, per ora, non ne vuol sapere di tornare al tavolo negoziale. La replica immediata alle nuove sanzioni petrolifere è l’annuncio che le forze armate iraniane sono pronte a chiudere lo stretto di Hormuz, dal quale passano tutte le rotte navali del Golfo. Sarebbero in grado di strangolare realmente il mercato petrolifero mondiale? Si tratta di una minaccia reiterata più e più volte nella storia della Repubblica Islamica, ma mai realizzata. (La prima volta fu Khomeini a paventare la chiusura nel lontano 1984, come risposta all’ appoggio dato dagli occidentali al regime di Saddam Hussein con cui era in guerra). Chiudere lo stretto sarebbe una dichiarazione di guerra implicita e l’Iran, almeno finora, non ha avuto mai l’ardire di andare fino in fondo.

Ci sono novità anche per la Guardia Rivoluzionaria, con un avvicendamento al comando che desta preoccupazioni sia negli Usa che in Israele. Il nuovo comandante in capo è il generale Hossein Salami, che nei mesi scorsi si è distinto per una serie di discorsi incendiari. Discorsi come, ad esempio: “Spezzeremo l’America, Israele e i loro partner e alleati. Le nostre forze di terra ripuliranno il mondo dalla sozzura della loro esistenza”. Queste parole le ha pronunciate in febbraio. Il mese prima aveva ancora promesso che avrebbe “spazzato via Israele dalla mappa politica del mondo” e che avrebbe “scatenato l’inferno” contro lo Stato ebraico. “L’Iran ha avvertito il regime sionista di non giocare col fuoco, perché sarà distrutto prima che gli Usa lo possano aiutare”, dato che ogni guerra, a suo avviso “si concluderà con la sconfitta di Israele entro tre giorni e non avranno abbastanza terra in cui seppellire i loro morti”. D’accordo che si tratta di propaganda, che un comandante della Guardia Rivoluzionaria (i pretoriani del regime degli ayatollah) deve esprimersi in questi termini per motivare i suoi uomini e mostrare devozione alla causa rivoluzionaria islamica. Ma è comprensibile la tensione sia in Israele che negli Usa di fronte alla sua nomina ai vertici del corpo d’élite, che è lo stesso che gestisce anche il programma nucleare.

Se non a una guerra, quel che si teme nell’immediato è una recrudescenza del terrorismo sciita, anche al di fuori del Medio Oriente. L’Iran controlla, direttamente o indirettamente, una vasta rete di organizzazioni. Se finora ci siamo abituati ad associare il terrorismo islamico al radicalismo sunnita, non dobbiamo dimenticare che negli anni ’80 fu soprattutto Hezbollah ad aprire la via al nuovo terrorismo religioso e suicida.