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IL PAPA E IL RE DEL MAROCCO

Gerusalemme città delle tre religioni, non solo dell'islam

Papa Francesco e Mohammed VI re del Marocco hanno firmato un documento su Gerusalemme: è “patrimonio comune dell’umanità e soprattutto per i fedeli delle tre religioni monoteiste”. Quindi anche per l'ebraismo. Il documento di Rabat smonta la tesi di Abu Mazen (della Gerusalemme non ebraica) e rilancia il dialogo con l'islam, quel che i jihadisti combattono.

Ecclesia 03_04_2019
Papa Francesco e re Mohammed VI

Una sorpresa: papa Francesco e Mohammed VI re del Marocco, sabato 30 marzo durante l’incontro privato nella residenza ufficiale e amministrativa del sovrano a Rabat, hanno firmato un documento su Gerusalemme. Tanto inatteso, non preceduto da anticipazioni e nemmeno da indiscrezioni, quanto senza precedenti e importante: per il riconoscimento che due altissime autorità, una cristiana, l’altra musulmana, formulano sulla natura, ruolo e significato di Gerusalemme “patrimonio comune dell’umanità e soprattutto per i fedeli delle tre religioni monoteiste”, quindi anche per gli ebrei.

Per quel che esplicita ha un valore pregnante e permanente, anche se in questo momento non vi è in corso alcuna iniziativa internazionale di pace tra israeliani e palestinesi. Salvo quella intrapresa e svolta unilateralmente dall’amministrazione statunitense Trump (o meglio: da Jared Kushner, genero del presidente, ebreo osservante, e suo consigliere per le relazioni con Israele) della quale non si conosce granché, però contestata tanto da essere “ignorata” dall’Autorità nazionale palestinese. E perché nella sua obiettività smonta la campagna del presidente palestinese Abu Mazen in varie sedi internazionali, e specialmente alle Nazioni Unite e all’Unesco, tesa a negare ogni legame dell’Ebraismo con il Tempio di Salomone e di Erode, costruito sulla spianata del Monte dove poi i musulmani avrebbero costruito le loro moschee, conosciuta come Haram el Sharif, il Nobile santuario.

Nel documento del Papa e del Re si parla appunto, per tre volte, con il nome italiano di Gerusalemme e arabo di Al Qods-Acharif (ma non lo si esplicita in ebraico) per riconoscerlo “come luogo di incontro e simbolo di coesistenza pacifica, in cui si coltivano il rispetto reciproco e il dialogo” dei fedeli delle tre religioni monoteiste. Un passo avanti significativo. Quando si pensi al divieto, tuttora in vigore, delle autorità religiose islamiche per i fedeli ebrei e cristiani di accedere in atteggiamento di preghiera alla Spianata, da esse considerata sacra esclusivamente per i musulmani. L’auspicio, o meglio appello, che viene formulato, riguarda certamente tutta la città. La sua valenza per i musulmani scaturisce dal fatto che la famiglia di Mohammed VI vanta una discendenza dal profeta Maometto e per tale ragione il sovrano in carica presiede il “Comitato al Quds” della Conferenza Islamica, organismo rappresentativo dei paesi di ogni parte del mondo, arabi e non, governati da musulmani. In passato il “Comitato Al Quds” non promuoveva queste posizioni: ad esempio nella conferenza promossa dal 23 al 25 febbraio 1999 a Casablanca aveva denunciato la “giudeizzazione” di Gerusalemme (vi avevano partecipato il leader palestinese Yasser Arafat e il Patriarca latino Michel Sabbah).

È molto significativo che il documento di Rabat sia maturato sulla scia di quello di Abu Dhabi, firmato appena un mese fa, il 4 febbraio dal Papa e dall’iman di Al Azhar, Ahmad Al Tayyib; sia cioè uno sviluppo di quel dialogo tra cristiani e musulmani che si vuol portare avanti sui grandi temi combattuti invece dal terrorismo fondamentalista ed estremista: “la fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”. Anche se in questo caso abbia una proiezione e contempli un coinvolgimento particolare, quello con la realtà ebraica, considerata da moltissimi musulmani come nemica, detestabile, nefasta. Dice infatti che di Gerusalemme - Al Qods Acharif “devono essere conservati e promossi il carattere specifico multi-religioso, la dimensione spirituale e la peculiare identità culturale”. Il Marocco vanta un’antica e positiva coesistenza con gli ebrei, parecchi esponenti di questa comunità sono stati chiamati a posti di alta responsabilità nelle istituzioni e ottime sono le relazioni coltivate dagli emigrati in Israele.

Sono esplicitati anche alcuni auspici: “nella Città Santa siano garantiti la piena libertà di accesso ai fedeli delle tre religioni monoteiste e il diritto di ciascuna di esercitarvi il proprio culto, così che a Gerusalemme - Al Qods Acharif si elevi da parte dei loro fedeli, la preghiera a Dio, Creatore di tutti, per un futuro di pace e di fraternità sulla terra”. Il documento recepisce così la posizione espressa il 4 novembre 1994, in un Memorandum “solenne conclave”, dai tre patriarchi greco-ortodosso, armeno-ortodosso e latino nonché dai capi delle Chiese cristiane di Gerusalemme relativa ai diritti di accesso e di culto nella Città santa. Non va oltre, non parla dell’invocato status speciale, garantito dalla comunità internazionale, che rifletta l’importanza universale di Gerusalemme.

Né evoca l’importanza che potrebbe avere il riconoscimento della “sovranità divina” su Gerusalemme. Un principio caro ad alcuni ebrei (formulato da Ruth Lapidot, docente di diritto internazionale all’università ebraica della città) e a molti cristiani (fra i quali mons. Kamal Hanna Batish, vescovo ausiliare del patriarca latino) e del quale sono da tempo portavoce. Un discorso sulla sovranità rischierebbe infatti di fare scivolare e impantanare il dialogo sulle pretese e ambizioni reciproche, su eredità, promesse e rivendicazioni; evidenzierebbe i limiti e i contrasti che incombono su Gerusalemme contesa dal potere politico israeliano e arabo, paradossalmente sulla città emblematica della pace, come evidenzia la sua etimologia: jerusha (“eredità”) e shalom (“pace”).

Va ricordato che più volte la Santa Sede ha affermato che dev’essere salvaguardato e tutelato il carattere cristiano della Città che è santa anche per l’ebraismo e l’islam. Il suo status politico, relativo alla sovranità, dovrà essere definito da un negoziato diretto tra le parti, israeliana e palestinese; mentre quello religioso, nel rispetto della libertà di acceso e di culto, dovrà scaturire da intese tra i leader delle tre religioni monoteiste ed essere garantito dalla comunità internazionale. Il documento di Rabat ha portato avanti questa direttiva.