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CINA

Hong Kong, la protesta e la subdola repressione cinese

Ad Hong Kong la protesta non si placa. Sebbene la Cina abbia schierato ingenti forze a Shenzen, al confine con l'enclave di Hong Kong, preferisce non muoversi e far fare il lavoro sporco alle forze di polizia locali. Le quali, secondo le accuse dei manifestanti, fanno picchiare dai membri delle gang delle triadi. Chi protesta rischi lavoro e sicurezza personale

Esteri 19_08_2019
Le ultime proteste a Hong Kong

La situazione di instabilità sociale in Hong Kong, innescata da una proposta di legge introdotta dal governo che avrebbe consentito l’estradizione anche verso la Cina, non si placa. Domenica 18 l’ennesima marcia (la quinta solo negli ultimi 3 giorni) ha paralizzato l’isola di Hong Kong. Gli organizzatori, il Civil Human Rights Front, ha stimato che hanno partecipato un milione e settecentomila persone. Il tema della marcia pacifica era “Fermiamo la polizia e il crimine organizzato che vogliono ridurre Hong Kong nel caos”.

Ora, qualcosa si dovrebbe dire sull’associazione spesso fatta fra polizia e le triadi (crimine organizzato). Non può essere escluso che nelle sue operazioni per tenere la città sotto controllo, la polizia si serva anche di elementi del crimine organizzato. Questo esiste anche in Italia, attraverso l’uso di informatori all’interno di organizzazioni criminali, persone che ottengono una certa forma di protezione e impunità, garantendo però informazioni importanti per catturare i pesci grossi. In Hong Kong non v’è dubbio che esiste una forte presenza dlle triadi che controllano alcune attività, probabilmente anche garantendo uno stato di relativa tranquillità nella città, che, fino a tre mesi fa, era una delle più sicure al mondo. Quindi un conto è l’uso di contatti “proibiti”, un conto la collusione. Coloro che protestano accusano la polizia di usare le triadi per picchiare i manifestanti e così scoraggiarli nel partecipare. 

Infatti Rick Sanchez di Russia Today America (rete televisiva finanziata dal Cremlino) porta avanti una teoria interessante. La Cina non ha nessuna convenienza in una repressione plateale, malgrado i raggruppamenti di truppe in Shenzen. Quindi usa una tattica di dissuazione facendo leva sulla paura: vuoi protestare? Va bene, ma attento al tuo lavoro (Cathay Pacific che licenzia i piloti che erano fra i manifestanti), alla tua sicurezza (gli studenti della Baptist University minacciati rivelando loro informazioni personali) e via dicendo. Insomma, si rende la vita difficile come mezzo di dissuasione nel continuare le proteste. Questa è la teoria di Rick Sanchez.

Certo non aiutano i violenti che spesso hanno trasformato le manifestazioni in occasioni di confronto con la polizia. Questo agli occhi di alcuni da un’immagine ambigua delle proteste in corso. Eppure, al momento, ancora non si vede una via di uscita praticabile. Il governo è praticamente senza nessun supporto popolare, il capo dell’esecutivo Carrie Lam si fa vedere il meno possibile. Per un tipo di governance come quella cinese un sistema come quello di Hong Kong è veramente un corpo estraneo quasi ingestibile. Questo senz’altro radicalizza la posizione di Taiwan, la cui situazione è ora molto più lontana da ogni soluzione pacifica. 

Nella seconda metà di agosto ci sarà l’elezione del nuovo capo dell’esecutivo di Macao. Il candidato Ho Lat-seng avrà pochi problemi a vincere in quanto... non ha oppositori. Questa sembra essere l’idea di democrazia che viene ritenuta accettabile in Cina, si riproducono le fattezze delle cose ma senza curarsi della loro sostanza. In fondo non dimentichiamo che l’idea di verità è diversa fra noi e loro. Per i cinesi la verità dipende non solo dal suo essere oggettivo, ma anche dalle circostanze. Lo studioso François Jullien ne parla nel suo bel libro “Essere o vivere”: “Se c’è una scelta greca ancorata nell’ontologia, o se c’è un “fondo d’intesa” in seno al quale i greci hanno pensato, consiste nel fatto di considerare che quanto più qualcosa è determinato, tanto più qualcosa “è”. La de-terminazione fa “essere”. Il “termine” costituisce un limite, peras, nel segnare i bordi salva dall’inconsistenza dell’illimitato, dell’apeiron (nel Filebo). L’indefinito è, contemporaneamente e in uno stesso senso, ciò che non ha limite o fine e ciò che è vago, indeciso, incerto e, quindi, un essere diluito. Ogni cosa infatti assume la sua consistenza tra un inizio e una fine definiti, arche-telos, che si dividono restando singolari, e in tal modo si costituisce in essenza-presenza, in ousia. Lo specifico del pensiero greco è assegnare: conferire a ogni cosa il suo specifico luogo teorico, contrassegnato come “in sé”: esso costituisce il suo appannaggio, è ciò da cui la cosa trae la sua pertinenza, che forma la sua “proprietà” e fa sì che possa essere un “sé” di fronte a sé, “in sé e per sé” (hauto kath’hauto), distaccata dal resto degli enti e sufficientemente stabile e circoscritta dalla sua qualità. Se anche fosse volatile o sottile, si tratterebbe di un’esalazione, di una corrente d’aria o di schiuma: agli occhi dei greci quel fenomeno possiede comunque una “natura”, una specificità definita. Per quanto sia difficile da trovare e circoscrivere concretamente qualcosa, per quanto sia difficile stabilire quale sia il rapporto, l’ambiente o l’area in cui si trova immerso, resta purtuttavia un “qualcosa” che possiede un’unità in grado di conferirgli una base come entità”.

Quando si parla della Cina in occidente, spesso lo so fa dalla prospettiva “greca” che per noi è certamente giusta e costituisce il modo in cui noi vediamo e misuriamo il mondo. Ma per essere efficaci nel dare informazioni utili su quello che si muove nel mondo cinese, bisogna capire prima di tutto che la nostra prospettiva non è la loro.