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POLEMICHE

I deliri interventisti di Henri Levy

Dopo aver sostenuto due anni fa il dovere dell’Occidente di combattere in Libia contro Gheddafi, Bernard Henri Levy è tornato lancia in resta a sostenere il dovere morale e politico di abbattere con le armi la dittatura siriana di Bashar Assad.

Esteri 04_09_2013
Bernard Henri Levy

Dopo aver sostenuto due anni fa il dovere della Francia e dell’Occidente di combattere la guerra contro il tiranno libico Muammar Gheddafi, Bernard Henri Levy è tornato lancia in resta a combattere una nuova battaglia per la democrazia sostenendo il dovere morale e politico di abbattere con le armi la dittatura siriana di Bashar Assad. L’editoriale pubblicato ieri dal Corriere della Sera contiene tutti gli elementi ormai ben noti della retorica del “nouveau philosophe” che non lesina proclami al limite del comizio e accuse di pigrizia a tutti gli intellettuali meno militanti di lui. Il commento, dal titolo inequivocabile “Il nostro Occidente che ha perso il coraggio”, richiama il giusto diritto della Francia e del mondo di intervenire in Siria dopo il “massacro chimico” compiuto dagli uomini di Bashar Assad ossequiando e celebrando il presidente interventista di sinistra Francois Hollande con la stessa prosopopea adottata nel 2011 dall’intellettuale nei confronti dell’interventista di destra Nicolas Sarkozy.

Gli ideali di Henri Levy sono così puri che non lo sfiora neppure il dubbio, che invece attanaglia politici e analisti persino alle Nazioni Unite, che i gas non siano stati lanciati dai lealisti. Neppure di fronte ai dati contrastanti sulle vittime del gas nei sobborghi di Damasco il filosofo si pone domande. Quanti morti ha provocato il “massacro chimico”?  Duecentottanta come sostiene l’intelligence francese, 350 come dice Medici senza Frontiere, oltre 1.400 come ha annunciato il Segretario di Stato statunitense John Kerry oppure più di 1.500 come dicono i ribelli ?

Domande che non sfiorano Henri Levy che anzi bacchetta dalle pagine del Corriere i “mass media litigiosi, cavillosi, sospettosi”, colpevoli forse di non bersi tutta d’un sorso la “pozione magica”, preparata con l’ampio contributo dello stesso Henri Levy, della lotta del popolo siriano per liberarsi da un tiranno che (guarda caso, come Gheddafi) fino a due anni e mezzo or sono era stimato, ricevuto e visitato come “uomo di pace” in tutte le cancellerie europee.

Le perplessità dell’opinione pubblica e di tutti i partiti politici francesi vengono aspramente bacchettate da Levy. Non lo sfiora neppure il dubbio che i presidenti francesi, prima Sarkozy e poi Hollande, non combattano in nome di “Liberté, Egalitè e Fraternitè” ma si schierino in realtà contro i bersagli indicati dalle monarchie petrolifere del Golfo. Paesi che certo democratici non sono ma che hanno investito decine di miliardi a Parigi e Londra anche per acquistare armi sofisticate ma che gli arabi non sono capaci di utilizzare. In cambio però hanno ottenuto di trasformare le ex-potenze coloniali europee in “mercenari” al soldo di Riad, Doha e Abu Dhabi.

A ben guardare il filosofo transalpino avrebbe più di un motivo per prendersi una pausa di riflessione e smaltire le sbornie idealiste malriposte. Durante la guerra civile libica sostenne che il Consiglio Nazionale di Transizione avrebbe riconosciuto lo Stato d’Israele e invece, ucciso Gheddafi, la “democrazia” libica ha provveduto a porre la sharia come “principale fonte della legge”.

Neppure quanto accaduto nel marzo scorso è servito a rimuovere la patina di cieco idealismo che copre gli occhi di Levy. Il filosofo francese non ha infatti potuto accompagnare l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy nella sua visita in Libia perché ebreo. Tripoli non gli ha concesso il permesso di entrare nel Paese “liberato” ufficialmente per il timore che Levy potesse diventare un bersaglio per le milizie islamiste ma è evidente che la nuova Libia è meno tollerante della Jamahirya del colonnello. Secondo la stampa francese Sarkozy avrebbe minacciato di cancellare la sua visita, ma sarebbe stato persuaso dallo stesso Levy a sostenere gli "amici in Libia" che si trovano "in una situazione delicata perché devono fare attenzione agli islamisti".

Vittima del suo ego spropositato, Levy deve essersi convinto che se cadesse il regime di Assad a Damasco regnerebbero ordine e democrazia. Non gli è bastato vedere il caos in cui è sprofondata la Libia, ormai incapace persino di produrre ed esportare gas e petrolio e in balìa di tribalismi e terroristi islamici. Probabilmente neppure le bandiere di al-Qaeda sul palazzo presidenziale di Damasco lo indurrebbero ad aprire gli occhi.