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PRESIDENZIALISMO DI FATTO

Il presidente interviene a gamba tesa sul governo

Mattarella, solitamente poco interventista e "notarile" nei suoi anni di presidenza, ora non fa mistero di non gradire la coalizione di governo Lega-M5S. E fra i due non gli piace la Lega, in particolar modo. In linea con Cossiga, Scalfaro e Napolitano, interviene sempre più nella politica. Ma siamo diventati una repubblica presidenziale?

Politica 14_05_2018

Tre anni fa era stato eletto grazie al sostegno decisivo di Matteo Renzi, che così facendo ruppe anche il Patto del Nazareno con Silvio Berlusconi, pur di assicurarsi una sponda quirinalizia per i successivi 7 anni. Da tempo quella sponda è venuta meno, visto che il Capo dello Stato, indossando la veste di uomo super partes, ha progressivamente preso le distanze dall’ex premier, con cui ha avuto da discutere in particolare in un paio di circostanze: all’indomani della cocente sconfitta renziana al referendum del 4 dicembre 2016, quando Mattarella, anziché accontentare l’arrembante Matteo sullo scioglimento anticipato delle Camere, decise di affidare l’incarico di formare il nuovo governo a Paolo Gentiloni; nel momento del rinnovo del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, sul quale Renzi e il cerchio magico volevano scaricare le responsabilità della mancata vigilanza su Banca Etruria e altri istituti di credito falliti.

Ma nel complesso Sergio Mattarella ha sempre lasciato fare in questi anni, astenendosi da prese di posizione nette ed energiche e da invasioni di campo nel perimetro della dialettica democratica tra i partiti. Dal 4 marzo in poi stiamo scoprendo un Presidente della Repubblica decisamente più interventista e sempre meno notaio. Il suo piglio decisionista peraltro lo estrinsecò più volte durante la sua carriera politica, in particolare nel 1990 quando si dimise da ministro per contestare l’approvazione della legge Mammì, considerata da lui e da altri ministri dell’allora sinistra democristiana troppo sbilanciata in favore degli interessi di Silvio Berlusconi e delle sue aziende.

Nei 70 giorni trascorsi dopo il voto politico, il Capo dello Stato ha subito lasciato trapelare un certo scetticismo rispetto alla possibilità che i partiti vincitori riuscissero a dar vita a un governo e, probabilmente, aveva chiaro fin dall’inizio l’esito del prolungato stallo: nuove elezioni, ma gestite da un governo di scopo, distante dai partiti e in grado di rassicurare mercati e istituzioni europee. Se poi, per la disperazione dei parlamentari neoeletti, quell’esecutivo, nato come provvisorio, fosse riuscito a durare anche più del previsto, di certo al Colle non si sarebbero stracciati le vesti.

Mattarella non ama particolarmente né Lega né Cinque Stelle, ma c’è da scommettere che, in un ipotetico gioco della torre, tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini sacrificherebbe più volentieri quest’ultimo, che spesso in passato l’aveva criticato. Il leader pentastellato può contare invece su un solido rapporto con il segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti e appare più rassicurante rispetto al numero uno del Carroccio in ambito internazionale e sul fronte delle alleanze, in particolare quella con gli Usa. Ecco perché il Presidente della Repubblica attende con una certa diffidenza e con una discreta impazienza le indicazioni di Lega e Cinque Stelle su premier, vicepremier, ministri e programma, riservandosi di indirizzare la formazione del governo in una direzione a lui gradita.

Sabato a Dogliani, ricordando il suo predecessore Luigi Einaudi, aveva rivendicato le prerogative presidenziali indicate nella Costituzione. L’art.92 attribuisce a lui il compito di nominare il Presidente del Consiglio e, su indicazione di quest’ultimo, i ministri. Sono poteri che Mattarella intende esercitare fino in fondo, e forse lo sta facendo fin da ora, perché ha paura che Lega e Cinque Stelle scelgano per le poltrone chiave, dalla Presidenza del Consiglio al Ministero degli Esteri, dal Ministero dell’Economia al Ministero dell’Interno, figure troppo “rivoluzionarie”, che l’Unione europea e gli Usa guarderebbero con sospetto e ostilità. Il che, fatalmente, si ritorcerebbe contro il nostro Paese e renderebbe breve la vita del nuovo governo. Mattarella ha dunque messo le mani avanti: non farà il notaio, vorrà fare lui le scelte più importanti, anche bypassando la volontà popolare, e si riserverà di rimandare alle Camere leggi che non dovessero prevedere con chiarezza le coperture. Ciò al fine di non allarmare i partner europei che chiedono al nostro Paese di rispettare i parametri economico-finanziari.

Ma questo dinamismo sorprendente del Quirinale non deve spingersi troppo in avanti e convertirsi in una sorta di presidenzialismo di fatto. I precedenti non mancano. Fermandosi agli ultimi trent’anni,  va ricordato il “picconatore” Francesco Cossiga, che partì lancia in resta nella demolizione dei partiti della Prima Repubblica, tanto che, al termine del suo settennato, si parlò addirittura di un suo rientro nella politica militante. Tutt’altro che notaio fu il suo successore Oscar Luigi Scalfaro, che da Palazzo Chigi condizionò non poco il corso della vita politica del Paese. Come dimenticare il suo accecante antiberlusconismo, che esplose nel 1994, all’epoca del primo governo guidato dal Cavaliere, e si confermò nella sua radicale cattiveria al termine del settennato quando, con endorsement e dichiarazioni ufficiali, Scalfaro espresse la sua preferenza per la sinistra.

Il caso di Giorgio Napolitano è ancora più eloquente. In particolare dopo la sua rielezione, nel 2013, si è sentito legittimato a orientare il corso delle vicende politiche, stante anche l’ingovernabilità determinata dall’incerto esito delle elezioni politiche di quell’anno. Ma il suo mandato passerà alla storia soprattutto per quanto fece nel 2011, nominando senatore a vita il bocconiano Mario Monti, che poco dopo assunse il ruolo di premier, a seguito della caduta (naturale o indotta dagli speculatori internazionali) dell’ultimo esecutivo a guida Berlusconi.

La storia italiana è dunque costellata di esempi di faziosità dei Capi dello Stato, che probabilmente hanno dovuto rendere conto alle maggioranze che li avevano eletti e non sono riusciti a rimanere fedeli al ruolo imparziale che la Costituzione di una Repubblica parlamentare come la nostra assegna loro. C’è da augurarsi che almeno Mattarella non deluda gli italiani.