Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Giovedì Santo a cura di Ermes Dovico
IL RICORDO

In morte di De Crescenzo

Se Camilleri impersonava la sicilianità, De Crescenzo era la napoletanità. Se ne sono andati a un giorno di distanza l’uno dall’altro, poche settimane dopo un altro novantenne illustre, Zeffirelli. Tre grandi vecchi, ma molto diversi. De Crescenzo aveva un suo modo di sorridere su tutto, eppure quella volta…

Cultura 24_07_2019

A distanza di un giorno se n’è andato pure lui, Luciano De Crescenzo. Se Andrea Camilleri impersonava la sicilianità, lui era la napoletanità. Entrambi vecchi e malati, come Franco Zeffirelli, il terzo ultranovantenne dipartitosene suppergiù nello stesso torno di tempo, erano artisti di fama internazionale che sono defunti come molti si augurerebbero per se stessi: carichi di gloria e onori, sazi di vita e di giorni.

Dei tre, forse il meno onusto di successi fu De Crescenzo, anche se nel club degli happy few ebbe la sua parte come scrittore, umorista, regista, attore e ospite quasi fisso di tutti i talkshow televisivi esistenti. La sua verve ironica era uno dei fiori all’occhiello del Maurizio Costanzo Show quando questo era il re dei talk italiani. Partì col botto, con quel Così parlo Bellavista che raccontò la Napoli che tutti si aspettavano, una Napoli di gag che nel 1984, a un’Italia appena uscita dagli anni di piombo, fece tornare finalmente la voglia di ridere. Era innamorato della filosofia greca e ci scrisse sopra diversi libri. Ma si arrabbiava perché i librai li mettevano nella sezione umoristica e non in quella filosofica. Colpa dell’immagine che ormai, televisiva e cinematografica, si era creato.

Quel suo modo di sorridere su tutto, quella sua espressione sempre in procinto di ridere in effetti ingannavano, almeno i librai. Lo incontrai solo una volta. Fu a Milano, a un convegno organizzato dall’editore San Paolo che si proponeva di fare il punto sul fenomeno dei bestseller. Infatti, presiedeva Corrado Augias e c’erano, tra gli invitati, calibri come Vittorio Messori e Valerio M. Manfredi. C’era anche lui e, parvus et idiota, io, fresco del botto librario del mio Il quadrato magico (Bur), oggi non so più a quale edizione giunto.

All’ora del rinfresco, mentre ci servivamo al buffet in piedi, lo avvicinai con piglio allegro per attaccare discorso e, magari, fare amicizia. Poiché il Quadrato del mio libro aveva vissuto tutte le sue vicende a Pompei, sito archeologico di Napoli per eccellenza, ritenni che un intellettuale napoletano cultore di antichità dovesse saperne anche più di me. Così, gli chiesi, tanto per approcciare, se avesse letto il mio libro o almeno ne avesse sentito parlare. Non l’avessi mai fatto. Mi bloccò a muso duro e disse che per scrivere i suoi, di libri, doveva leggerne centinaia, perciò non aveva tempo per altro. E mi voltò le spalle. Rimasi di princisbecco.

Tutta la bonomia che mi aspettavo, dopo averlo visto svariate volte sullo schermo, tele e cine, aveva lasciato il posto all’espressione di uno che non vuole essere seccato dagli importuni. Come se io fossi stato un fastidioso postulante, uno scocciatore e non uno scrittore presente non a caso in un convengo di bestselleristi. Nel mio caso, almeno, l’apparenza aveva ingannato. Magari ero stato semplicemente sfortunato e avevo imbroccato l’unico giorno di luna storta in un personaggio altrimenti simpatico, cordiale e piacevole. Non lo saprò mai. Comunque, è una lezione che non ho mai dimenticato, applicandola, a contrario, nella mia vicenda lavorativa.

Uno scrittore cristiano, e io lo sono, deve usare un altro stile col pubblico. Lui era uno scrittore senza aggettivi, perciò nulla doveva a nessuno. Ma, e qui la riflessione, ogni epoca ha i suoi modelli. Nei secoli cristiani, ai giovani venivano additati a esempio il santo e il cavaliere, che sacrificavano la vita per agli altri. Oggi il modello è il personaggio di successo, un successo fine a se stesso. Chi ce l’ha se lo gode e, anzi, reclama azioni repressive contro quanti, attratti come falene dal suo splendore, lo disturbano. Non era, certo, il caso di De Crescenzo, ci mancherebbe. Ma con lui la triade dei grandi vecchi appena defunti si completa idealmente: Camilleri, era lo scrittore-coscienza civile della sinistra; Zeffirelli era il regista credente nel cattolicesimo; De Crescenzo, scrittore e regista senza impegno né di qua né di là.

In verità, un’idea, e a mio avviso buona, per risolvere i problemi di Napoli l’aveva esposta in un suo libro: trasformare Napoli nella Las Vegas d’Italia. Avrebbe attirato da tutto il mondo turisti che poi i napoletani avrebbero pensato a pelare.