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LEGGE NERA

Indonesia, persecuzione di un governatore cristiano

Fino a pochi mesi fa, Basuki "Ahok" Tjahaja Purnama, era il popolare governatore cristiano di Giacarta. Il 19 aprile ha perso le elezioni e il 9 maggio è stato condannato a due anni di carcere per blasfemia. Tutto per un comizio in cui citò il Corano e per la condanna degli ulema indonesiani.

Libertà religiosa 12_05_2017
Ahok

Fino a pochi mesi fa, Basuki "Ahok" Tjahaja Purnama, era il popolare governatore cristiano di Giacarta. In buoni rapporti con il presidente Joko Widodo, attivo nel campo della protezione dei diritti umani e della libertà di religione, godeva di un tasso di approvazione attorno al 70% presso i suoi cittadini. Il 19 aprile ha perso le elezioni e il 9 maggio è stato condannato a due anni di carcere per blasfemia. L’accusa è partita da una sua dichiarazione pubblica, durante un comizio ai pescatori di Thousand Islands del settembre 2016, in cui invitava a non strumentalizzare il Corano a fini politici.

Da quel suo breve discorso, il cui intento era tutt’altro che dissacrante nei confronti della religione musulmana, per Ahok la discesa dalle stelle della politica alla galera è stata rapida e inesorabile. L’11 ottobre, il Consiglio degli ulema indonesiani (Mui) aveva chiesto alla polizia di Jakarta di compilare una denuncia contro Ahok per diffamazione del Corano. L’ala giovanile del Muhammadiyah (movimento islamico moderato) ha poi chiesto la condanna del politico per blasfemia. Il 4 novembre 100mila islamici scesero in piazza per chiedere il processo e la condanna del governatore. Subito dopo è arrivata l’incriminazione formale per il governatore. Il 10 novembre, meno di una settimana dopo, il generale Ari Dono Sukmanto, capo detective, ha detto che gli ispettori hanno ascoltato 40 testimoni e raccolto “prove” sufficienti per aprire un fascicolo. Dopo una contro-manifestazione a sostegno della Pankasila, il principio di tolleranza e coesistenza fra religioni in Indonesia, gli islamici radicali sono tornati in piazza. Senza incidenti, pacificamente, ma chiedendo la condanna del governatore, il 3 dicembre 2016, più di 200mila musulmani (circa il doppio rispetto al mese precedente) hanno di nuovo sfilato nel centro della capitale chiedendo di processare il governatore.

Tutta questa tensione ha certamente influenzato l’esito del voto del 19 aprile, vinte da Anies Baswedan, già ministro dell’Educazione e candidato di riferimento anche delle associazioni islamiche più estremiste. Ahok ha conquistato il 42% dei voti, contro il 58% del suo rivale. Per mesi, oltre alle manifestazioni di piazza, gli imam radicali islamici avevano predicato nelle moschee perché il popolo votasse per Baswedan. Ai sostenitori di Ahok venivano addirittura negati i funerali. In meno di sei mesi sono riusciti a ribaltare completamente la scelta popolare, trasformando il candidato preferito in un perdente. Secondo osservatori dell’Indonesia citati dall’agenzia missionaria Asia News, le elezioni di Giacarta “non sono state solo delle elezioni ‘locali’ o una battaglia regionale tra Ahok e Baswedan, ma riflettono un più ampio panorama politico nazionale. Le ‘Pilkada 2017’ sono state una lotta tra le componenti moderate della società indonesiana e i gruppi islamisti radicali, tra i democratici e gli autoritari”. E i secondi hanno ottenuto una chiara vittoria.

Il peggio, per il governatore Ahok, doveva ancora venire. Il 9 maggio, venti giorni dopo la sconfitta alle urne, è arrivata, puntuale, la sentenza. L’aspetto più inquietante di questo processo è che la sentenza del giudice supera le richieste della pubblica accusa. I procuratori avevano fatto cadere l’accusa di blasfemia nella loro richiesta di sentenza, dicendo che non vi fosse alcuna prova. Quindi, avevano chiesto che Ahok fosse condannato a due anni con la condizionale e un anno di carcere in caso di reiterazione del reato. Invece il collegio di giudici condotto da Dwiarso Budi Santiarso ha condannato Ahok a due anni di carcere per blasfemia. Il governatore (lo è ancora: il suo mandato scadrà a ottobre) ha annunciato ricorso, ma intanto è già stato internato. Il giudice, nel motivare la sua sentenza, ha detto che, nel suo comizio di Thousand Islands, invece di discutere questioni inerenti la pesca tra i pescatori locali, Ahok ha di proposito “deviato” il problema, rilasciando commenti offensivi che non erano “correlati” alla sua intenzione di incontrare gli abitanti del luogo. Se questo è sufficiente a provare la blasfemia…

“Come può l’Indonesia definirsi ‘una nazione secolare basata sullo Stato di diritto’ se Ahok, un cristiano di discendenza cinese, lavoratore incorruttibile che non accetta compromessi, viene dichiarato ‘colpevole’ di blasfemia e politicamente ‘condannato’ in un processo così ingiusto? – si chiede l’attivista musulmano Lilik Sugianto, il cui parere è riportato da Asia News - Per la maggior parte dei cittadini e degli attivisti, quello di Ahok è un processo ‘creato ad arte’ per giungere ad una condanna e al carcere”. “La sentenza è strana e comunemente chiamata ‘ultra petita’, il che significa che il verdetto è più pesante di quanto richiesto dai procuratori – commenta Koerniatmanto, docente di giurisprudenza all’università di Bandung - Per il collegio dei giudici, tale verdetto è socialmente ‘amichevole’ per motivi di sicurezza. Le folle arrabbiate non ‘attaccheranno’ i giudici e Ahok sarà condotto in prigione in totale sicurezza”. Come in Pakistan, insomma. Dove i giudici supremi non hanno ancora avuto il coraggio di processare Asia Bibi in ultimo appello (era previsto per giugno, già rinviato, ma è slittato ancora) letteralmente per paura di assolverla. Ma l’Indonesia non era conosciuta, finora, come una realtà radicale islamica alla stregua del Pakistan.

L’Indonesia (il paese musulmano più popoloso del mondo), con l’eccezione grave della provincia di Aceh, dove vige la sharia, ha sempre affermato il principio della coesistenza fra religioni. La graduale radicalizzazione del paese, anche con atti di terrorismo contro i cristiani sempre più numerosi, è l’ennesima dimostrazione del cosiddetto “risveglio islamico” in tutto il mondo. Anche nella democratica e laica Turchia, dove di democratico e soprattutto di secolare resta sempre meno. Anche in Malesia, dove ai cristiani è vietato scrivere la parola Allah, per volere della magistratura.