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L'ANALISI

Informazione e diplomazia in soccorso dell'islam

Ex Jugoslavia, Rohingya, Gerusalemme: tre gravi crisi dove i musulmani passano sempre come vittime, pur essendo la realtà molto più complicata e perfino opposta alla narrazione in voga. Diffiicle pensare a una regia comune, eppure...

Editoriali 07_12_2017
Radovan Karadzic

Che la propaganda nei paesi musulmani punti al vittimismo, accusando occidentali ed ebrei di una presunta aggressione contro l’islam, è ben noto. Ma pare che tale approccio sia ormai stato interiorizzato anche in Occidente. Al punto che c’è una curiosa coincidenza nella lettura di grandi fatti internazionali di questi ultimi anni, che porta a considerare i musulmani soltanto come vittime.

Solo pochi giorni fa si è tornato a parlare della guerra nella ex Jugoslavia, soprattutto per il clamoroso gesto del generale croato Slobodan Praljak che si è suicidato ingerendo veleno alla lettura della sentenza che lo condannava come criminale di guerra. Senza entrare nel merito delle sentenze, appare chiaro che dagli accordi di Dayton (1995) - che sancirono la fine della guerra in Bosnia – alle decisioni del Tribunale dell’Aja, si è fatto di tutto per accreditare l’idea di una avvenuta guerra civile che, peraltro, avrebbe avuto i musulmani come uniche vittime. In realtà si è trattato di una guerra causata dall’aggressione serba, con un andamento tutt’altro che lineare (croati e musulmani poi si scontrarono tra loro), dove atrocità ed efferatezze furono compiute da tutte le parti (anche se il maggior numero di vittime è stato provocato dai serbi).

I musulmani però sono stati gli unici a potersi avvalere della “solidarietà” internazionale, nella fattispecie le brigati internazionali islamiche con miliziani provenienti da Afghanistan, Cecenia, Arabia Saudita. Molti di costoro si sono fermati anche a guerra finita e, grazie ai soldi provenienti dall’estero, soprattutto Arabia Saudita, hanno proceduto all’islamizzazione della Bosnia-Erzegovina. L’arcivescovo di Sarajevo, cardinale Vinko Puljic, già due anni e mezzo fa denunciava i grandi ostacoli posti per la costruzione delle chiese mentre nel frattempo solo a Sarajevo avevano aperto 70 centri di culto musulmano e 100 erano le nuove moschee nel Paese.
Eppure nella narrazione ufficiale i musulmani restano solo vittime, e il Tribunale dell’Aja ha mandato assolti o condannati con lievi pene i comandanti islamici.

Cambiando scenario, è interessante anche il caso dei Rohingya, i profughi musulmani cacciati dal Myanmar di cui tanto si è parlato in questi giorni per l’incontro che hanno avuto con il Papa. Anche qui passa l’idea che sia un caso unico di persecuzione, ma la vicenda delle minoranze in Myanmar – come abbiamo già raccontato – è molto più complessa e dura da settanta anni, da quando cioè il Myanmar, come altri paesi, ottenne l’indipendenza dalla Corona britannica. Nessuno vuole qui minimizzare il dramma di questa popolazione ma perché dimenticare i Kachin, i Karen, gli Sha, i Chin e le tante altre etnie che hanno vissuto e vivono da decenni la persecuzione in Myanmar e sono sempre stati ignorati dai media internazionali?
La disparità di trattamento è troppo evidente per non essere sospetta.

Ed arriviamo anche a Gerusalemme, simbolo del conflitto israelo-palestinese, una situazione incandescente che anch’essa si trascina da decenni. I grandi media internazionali raccontano il conflitto a senso unico, i palestinesi sono le vittime e se compiono attentati o si lasciano andare a violenze vanno compresi visto quello che devono sopportare. Si dimentica volentieri che i paesi islamici hanno rifiutato fin dal 1947 l’esistenza di Israele, contro cui hanno scatenato tre guerre (1948, 1967 e 1973) perdendole e con esse anche fette di territorio.
E si dimentica che in questi paesi ai ragazzi che vanno a scuola è proibito anche solo leggere dell’esistenza di uno stato chiamato Israele. Non si devono ovviamente tacere neanche le responsabilità israeliane in questo conflitto, ma la complessità della situazione e i reciproci atti di ostilità, nelle ricostruzioni dei media più importanti vengono ridotti a una battaglia tra buoni e cattivi. E i buoni ovviamente sono i musulmani, anche se in Medio Oriente come in Bosnia e altrove a doversene andare – per persecuzioni e discriminazioni – sono i cristiani. A questo proposito bisognerà anche ricordare che, secondo il rapporto di Open Doors su 50 paesi in cui i cristiani sono perseguitati, ben 40 sono islamici.
Non è una gara a chi è più vittima, è soltanto la forte perplessità davanti a un fenomeno di comunicazione che distorce la realtà per costruire consenso intorno alla causa islamica.

Nei casi elencati è difficile pensare a un’unica regia che indirizza l'informazione, ma è un dato di fatto che ormai in Occidente quando si parla di musulmani scattano alcuni riflessi, compreso l’argomento per cui anche i terroristi che uccidono in nome del Profeta sono in fondo nemici dell’islam: i musulmani sarebbero perciò le prime vittime del terrorismo.

Difficile pensare ad un’unica regia si diceva, però un passaggio decisivo per creare questo clima è stata l’imposizione del concetto di islamofobia in sede internazionale, precisamente alla Conferenza Internazionale ONU di Durban nel 2001, solo pochi giorni prima dell’attentato alle Torri Gemelle. A Durban i paesi della Conferenza islamica si presentarono uniti e determinati e condizionarono pesantemente i lavori. E da allora il termine islamofobia viene brandito per intimidire i critici dell’islamismo e condizionare informazione e diplomazia nella descrizione e nell’analisi dei fatti in chiave islamo-friendly.