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CINA VICINA

Istituti Confucio, avamposti di Pechino in Italia

Gli Istituti Confucio, presenti nel nostro Paese in ben nove città, non si limitano a insegnare la lingua e la cultura cinesi. Sono una branca all'estero del regime di Pechino e fanno politica, imponendo una visione conforme all'ideologia di Partito.

Educazione 29_12_2013
cinese

In nove città italiane – Napoli, Roma, Bologna, Milano, Torino, Venezia, Macerata, Pisa, Padova – una sorridente propaganda invita a frequentare gli Istituti Confucio, dove s’imparano a condizioni convenienti la lingua cinese – così utile per gli affari – ed elementi della cultura della Cina. In Italia la diffusione degli Istituti Confucio è iniziata da Napoli, in collaborazione con la prestigiosa Università L’Orientale. Nel mondo gli Istituti – a partire dal primo, fondato a Tashkent nell’Uzbekistan nel 2004 – sono 320, e un piano prevede di arrivare a mille entro il 2020. Un piano di chi? Di una branca del governo di Pechino chiamata Hanban, che è Ufficio nazionale per l’insegnamento del cinese come lingua straniera: un nome apparentemente innocuo, che sembrerebbe assimilare questa organizzazione a quelle che in Germania promuovono nel mondo i Goethe Institut e in Francia le sedi dell’Alliance Française. Ma il paragone è ingannevole: il Goethe o l’Alliance Française sono sostenuti dai rispettivi governi, ma sono indipendenti, mentre l’Hanban è parte integrante della macchina governativa cinese. Inoltre, a differenza degli istituti che promuovono il tedesco e il francese, gli Istituti Confucio sono stati accusati di spionaggio e di legami con i servizi segreti cinesi.

Queste ultime accuse per la verità non sono state provate, e ogni volta che qualcuno le lancia la reazione della diplomazia cinese è durissima. Questa reazione non ha però potuto placare le critiche sul piano culturale e politico, che – senza entrare nella questione dello spionaggio – mettono in luce le ambiguità degli Istituti Confucio e il loro uso da parte del regime come strumento di propaganda politica. Nel 2012 anche AsiaNews, la prestigiosa agenzia cattolica del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) specializzata in vicende asiatiche, ha pubblicato uno studio di Alan H. Yang e Michael Hsiao intitolato «Gli Istituti Confucio, “cavalli di Troia” dell’egemonia cinese».

Lo studio del PIME mette in luce anche come il nome degli Istituti Confucio sia ingannevole. Questi istituti infatti non diffondono la cultura confuciana, benché ogni tanto facciano cenno al fatto che questa sarebbe stata recuperata come codice morale dall’attuale governo cinese. Secondo Yang e Hsiao l’avversione per il confucianesimo che viene dalla Rivoluzione culturale è invece tuttora diffusa nel regime cinese, e il marchio Confucio è usato perché piace agli occidentali senza corrispondere a un contenuto reale.
Dalla BBC ai grandi quotidiani statunitensi e canadesi, molti media hanno cercato di scavare nel retroterra degli Istituti Confucio e si sono imbattuti in dichiarazioni – per uso interno cinese – di esponenti del regime secondo cui si tratta di «propaganda culturale», intesa a trasmettere un’immagine positiva della Cina attuale. Le direttive del regime agli Istituti Confucio suggeriscono interventi sorridenti ma fermi per scoraggiare ogni critica a proposito delle «tre T»: il Tibet, Taiwan e Piazza Tienanmen, cioè la repressione dei dissidenti interni, cui si aggiunge la persecuzione del nuovo movimento religioso Falun Gong.

Né si tratta soltanto di propaganda. Gli Istituti Confucio stipulano accordi con grandi università – a Londra, per esempio, la London School of Economics – e istituzioni pubbliche, a condizioni vantaggiose per questi enti occidentali, sui quali poi esercitano una cortese pressione perché sia repressa ogni critica del regime di Pechino sui temi sensibili e sui diritti umani. Così la North Carolina State University è stata «persuasa» a cancellare una visita del Dalai Lama, che avrebbe potuto parlare dello sgradito tema dei diritti umani nel Tibet occupato dalla Cina, e l’Università di Tel Aviv a chiudere una mostra sulla repressione del Falun Gong organizzata da un gruppo studentesco. Non tutte le ciambelle cinesi riescono col buco: a Tel Aviv gli studenti si sono rivolti al tribunale, che ha dato loro ragione, sostenendo che la loro «libertà di espressione» era stata violata a causa del timore dell’università di «mettere in pericolo la sua relazione con l’Istituto Confucio». E in altre università americane, nonostante la discreta opposizione dei locali Istituti Confucio, il Dalai Lama è stato accolto.

Resta però il problema se sia opportuno che istituzioni pubbliche europee e americane accolgano «cavalli di Troia» di un regime che viola costantemente i diritti umani e la libertà religiosa. Come al solito, tutto dipende dal giudizio sulla Cina. Se, in nome degli interessi commerciali, vogliamo vedere solo la facciata luccicante del Paese con il maggior numero di negozi di Prada allora non saremo troppo preoccupati neanche dalla propaganda degli Istituti Confucio. Può darsi invece che, oltre al portafoglio, c’interessino i diritti umani che continuano a essere violati, la persecuzione dei cattolici fedeli a Roma, o la situazione dei poveri ben poco favoriti dalla crescita del PIL in un Paese, la Cina, che è una prova vivente della teoria esposta da Papa Francesco nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» – e criticata da qualche economista americano, che forse non aveva ben presente proprio l’esempio cinese – secondo cui la crescita economica non va automaticamente a beneficio dei più disagiati. In questo caso, ci accosteremo anche agli Istituti Confucio con la necessaria prudenza e cautela.