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IL TERRORISTA DI NIZZA

Jihadista alcolizzato e drogato: Maometto lo permette

«Si può essere jihadista e alcolizzato; jihadista e fumare l'erba; jihadista e cliente assiduo di bordelli».  Parola di Mohamed Louizi – ex Fratello musulmano residente in Francia. E parole che spiegano perché lo stragista di Nizza, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, non rientra per nulla nei canoni del perfetto jihadista.

Esteri 21_07_2016
Mohamed Lahouaiej Bouhlel, il terrorista di Nizza

All’indomani del tragico attentato a Nizza, le autorità e la stampa francesi hanno iniziato a far trapelare notizie sull’attentatore Mohamed Lahouaiej Bouhlel d’origine tunisina e residente in Francia.  Un susseguirsi di conferme e smentite sul suo passato, sulla sua rapida radicalizzazione e persino sulla sua identità. 

Nonostante la conseguente confusione, alcune notizie possono illuminare su quanto oggi il mondo, e quindi il terrorismo e le ideologie ad esso collegate, siano globalizzate e quanto i flussi e gli spostamenti di persone, e ancora una volta di idee, siano da considerare in tutte le loro sfumature. Di fatto, un video pubblicato su un profilo Facebook a ridosso dell’evento che mostra un giovane che afferma di essere Bouhlel conduce al paese natale dell’attentatore: Msaken, nei pressi di Sousse. Il profilo è dedicato alla cittadina e contiene notizie, eventi e battute goliardiche ed è in quest’ottica che va interpretato il video sospetto. Da Msaken, sotto choc per le origini dell’attentatore, si sono svolte manifestazioni in solidarietà con Nizza che si spiegano anche con il legame che la cittadina ha con il dipartimento delle Alpi Marittime in cui si trova Nizza tanto da essere chiamata in gergo 06 ovvero con il codice amministrativo della zona. 

Questo spiega, quindi, con quale facilità Bouhlel abbia potuto inviare, prima dell’attentato, circa 85.000 euro in contanti alla propria famiglia grazie a conoscenti che rientravano a Msaken. Tuttavia la Francia, le Alpi Marittime e Msaken condividono altresì il passaggio sul loro territorio del controverso imam Bechir Ben Hassen. Costui è stato arrestato il 28 maggio 2013 all'aeroporto di Casablanca, dopo l'emissione di un mandato di arresto internazionale. Successivamente è stato estradato in Francia, dove ha scontato una pena detentiva per il rapimento dei figli dalla madre (di nazionalità francese). É tornato in Tunisia nel  febbraio 2014, quando è ritornato a svolgere illegalmente la sua funzione di imam presso la grande moschea di Msaken. Nel luglio 2015 è stato allontanato dal pulpito della moschea e circa 300 persone avrebbero manifestato per la sua cacciata da parte del ministero degli Affari religiosi. 

Nel 2014 Ben Hassen, che ha discepoli e seguaci anche in Francia e nelle Alpi marittime, ha dichiarato che «i leader e le istituzioni occidentali hanno compreso di non avere altra scelta che aprire le porte agli studiosi, ai predicatori, e agli studenti dell'islam. E così, Allah sia lodato, viaggiamo per questo Continente, presentando il nostro caso, confutando gli errori sull'islam, predicando la fede in Allah, presentando alla gente l'islam moderato, come è stato trasmesso dal Profeta Maometto. Questa è l'apertura mentale, la libertà, e l'agognata democrazia, che molti Paesi arabi sostengono di avere, pur essendone ben lontani», ma al contempo predicava l’odio nei confronti degli sciiti, non disdegnava invitare predicatori come Ayadh al-Qarni, che predicavano il jihad in Siria prima ancora della comparsa in scena di Abu Bakr al-Baghdadi, e che nel gennaio 2015 dichiarava che chiunque offenda il Profeta debba essere ucciso. 

Per questo motivo nel settembre 2015 il Quebec non gli concesse il visto d’ingresso e nel dicembre 2015 un giovane imam, Afif Lattar, viene allontanato in Francia per avere accolto alla moschea di Cannes il predicatore tunisino. È inutile ripetere che con molta probabilità Bouhlel non ha avuto nulla a che fare con Ben Hassen, ma il percorso geografico dei due tunisini è paradigmatico di come anche i flussi migratori regolari possano essere significativi per ricostruire i flussi di denaro e di idee.  La storia di Bouhlel ha riportato a galla un’altra costante dei recenti attentati da Orlando a Nizza. Un amico ha dichiarato al Corriere della Sera che era un «cattivo musulmano: beveva, picchiava, non digiunava per il Ramadan… Che c’entra con l’islam? Solo perché era tunisino? Solo perché lo dicono i media?» 

Sempre più di frequente ci si stupisce della radicalizzazione di giovani musulmani che bevono e che conducono una vita sregolata. A prescindere dal fattore “purificazione” che comporta un attentato suicida in nome di Allah, di recente Mohamed Louizi – ex Fratello musulmano residente in Francia – ha rammentato, proprio a seguito della tragedia del 14 luglio, che il consumo dell’alcol in particolare e una vita sregolata in generale non escludono il reclutamento da parte dei jihadisti che trovano in un detto di Maometto: «Allah sostenga questa religione (l'islam) anche grazie al sostegno dell'uomo perverso». 

Louizi sottolinea che giuristi importanti autorizzano persino la partecipazione a una spedizione di un "miscredente" accanto ai combattenti musulmani. «Alcuni siti web jihadisti utilizzano le storie cosiddette autentiche per mobilitare i candidati, comprese le persone che non osservano alcuna ortodossia religiosa. Una di queste storie è quella di un jihadista, all'epoca del secondo califfo Omar Ibn al-Khattab: si chiamava Abu Mihjan al-Thaqafi. Era un alcolizzato, ma era impareggiabile nelle guerre di conquista. Come durante la battaglia di al-Qadissiyyah contro i Persiani. La storia racconta che fu grazie a lui che l'esercito islamico aveva vinto la battaglia. Era in prigione perché sempre ubriaco ed era in attesa di essere flagellato, quando iniziò il confronto militare contro i Persiani. Ma quando venne a sapere che l'esercito islamico stava perdendo, riuscì a convincere la moglie del principe a farlo liberare per potersi unire alla lotta, con il viso celato dietro una maschera. La donna l'aveva liberato dalle catene. E dopo la battaglia l'uomo tornò in cella come promesso. Quando l'emiro seppe la sua impresa, lo graziò».

Louizi conclude ricordando che «la propaganda jihadista utilizza questo esempio ancestrale per convincere i tossicodipendenti e altri criminali a combattere il nemico di Allah». Infine, ammonisce chiunque voglia comprendere quanto sta accadendo in Europa e afferma che «i sedicenti "esperti" farebbero meglio a imparare l'arabo e studiare la letteratura jihadista, così com'è, invece di asservire l'islamismo e il suo terrore. Perché sì si può essere jihadista e alcolizzato; jihadista e fumare l'erba; jihadista e cliente assiduo di bordelli». 

Si tratta apparentemente di una spiacevole notizia per chi è preposto alla sicurezza, ma potrebbe essere una valida chiave di lettura scaturita dall’analisi dei sempre più frequenti casi di “squilibrati”, “perversi” che sono diventati “soldati dello Stato islamico”. Il caso Bouhlel ha quindi sia consentito di aggiungere un ennesimo tassello alla decodificazione dei paradigmi che conducono alla radicalizzazione sia confermato la presenza di reti che possono fare affidamento all’inconsapevole comunità di origine e a una consapevole rete di complici che, come è noto, ha sfiorato anche l’Italia.  Tutto ciò conferma quindi la complessità del fenomeno della radicalizzazione e dell’impossibilità di ridurlo a un unico paradigma.