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L'INTERVENTO

La famiglia è come la gravità: non si abolisce per legge

Dall’8 al 12 febbraio 2016 il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II propone un seminario di studio sulle “Pratiche di vita buona per una cultura della famiglia”. Ma cosa significa cultura della famiglia e come promuoverla? Ecco alcune riflessioni che possono aiutare a capire, anche alla luce di quel che sta succedendo oggi.

Famiglia 07_02_2016
La famiglia trova il suo fondamento nella natura

Tra famiglia e cultura c’è una circolarità. La famiglia viene sempre vissuta all’interno di una data cultura, ma allo stesso tempo la famiglia stessa genera la cultura. Perciò, mentre non è completamente sbagliato pensare alla famiglia come patrimonio culturale, tuttavia questo sarebbe decisivamente troppo poco. Ma parlare di cultura della famiglia non è la stessa cosa di una cultura delle belle arti, ad esempio, che offra spazio e preveda risorse alla promozione di certe attività artistiche e alla conservazione di opere d’arte. Una cultura familiare, poi, non può fare a meno di una politica che offra sostegno alla famiglia come realtà meritevole di sostegno pubblico da parte dello Statoi. 

Le quasi due milioni persone che si sono riunite al Circo Massimo di Roma il 30 gennaio  per il Family Day non chiedevano certo una sorta di rifugio culturale e sociale per una realtà minacciata dall’estinzione. Hanno, invece, voluto dare pubblica espressione al fatto che la famiglia è soggetto culturale e hanno chiesto che quel fatto venga riconosciuto pubblicamente. Chi minaccia e distrugge la famiglia minaccia e distrugge la cultura, dato che la famiglia è la fonte principale di cultura. 

Secondo San Giovanni Paolo II la cultura è «ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, “è” di più, accede di più all’”essere”» (Discorso all’Unesco, 2 giugno 1980). Le diverse culture umane sono delle diverse forme in cui si manifesta l’universale natura umana. Viene in mente l’osservazione del filosofo tedesco Robert Spaemann: «Originariamente cultura significa, infatti, agricoltura: la cultura è natura umanizzata, non abolita”» (Felicità e benevolenza, 215). Il contadino si confronta con un dato che precede ogni sua scelta: il campo e il seme. Coltivare queste realtà vuol dire cercare di creare le condizioni migliori perché le piante crescano e producano un frutto abbondante. E mentre è ovvio che la natura ha bisogno della coltura per essere portata al suo compimento, è anche chiaro che senza natura, la coltura non avrebbe ben niente da coltivare.

Si possono usare diversi modi per produrre: c’è l’agricoltura estensiva e quella intensiva; uno può usare un trattore oppure un cavallo per tirare l’aratro. Ma in ogni caso il contadino deve sempre rispettare la natura del campo e del seme. Diversi tipi di terreno hanno bisogno di diversi tecniche di aratura, diverse specie di seme richiedono diverse quantità di acqua e di fertilizzante. Alcuni modi di coltivare la terra funzionano in modo migliore che altri. In modo analogo, alcune culture fanno fiorire la natura umana più che altri; alcune possono contenere elementi che impediscono la fioritura della natura umana.

Nel caso che una cultura andasse contro la natura umana, essa si auto-distruggerebbe e non sarebbe più trasmessa alle generazioni future. Diventerebbe una “anti-cultura”. Che cosa c’è da temere da una “cultura” che si arroga il diritto di chiamare con le parole “matrimonio” o “famiglia” arbitrariamente tutto quello che vuole, una cultura che dice che l’unico fondamento del matrimonio è l’affetto e pretende il nome di famiglia per qualsiasi tipo di convivenza affettiva immaginabile? Il pericolo più grande non è certo che duri per secoli. La realtà è una maestra severa. E mentre Dio è misericordioso e perdona, la realtà purtroppo punisce senza pietà. Come diceva già il giovane Karl Marx, un parlamento che volesse definire a modo suo cosa sia il matrimonio è eguale a un sistema legislativo che volesse cambiare, per decreto, le leggi della gravità e dell’acqua (Der Ehescheidungsgesetzentwurf, Rheinische Zeitung 353, 19 dicembre 1842). 

Anche se un bel giorno il Parlamento italiano, oppure quello europeo, dovesse decidere di abrogare la legge della gravità, chi decidesse di buttarsi dalla finestra continuerebbe comunque a cadrebbe giù. Come nel caso della gravità, così anche nel caso del matrimonio il pericolo non è che una tale legislazione duri nel tempo, ma piuttosto che l’impatto con la realtà sia distruttivo e potenzialmente letale. Invece la cultura, nel suo vero significato, porta la natura umana al suo compimento.  La cultura «è una caratteristica della vita umana come tale. L’uomo vive di una vita veramente umana grazie alla cultura» (Giovanni Paolo II, Discorso all’Unesco, 2 giugno 1980). Ad esempio, gli esseri umani non assorbono semplicemente delle sostanze nutritive, ma pranzano e cenano. Robert Spaemann lo dice così: «Mangiare e bere rientrano in un contesto culturale.

Come ha mostrato Claude Lévi-Strauss, il cuocere i cibi rappresenta, in molte culture, il paradigma tout court della cultura. Mangiare e bere diventano banchetto, banchetto in famiglia, banchetto tra amici, banchetto nuziale» (Spaemann, Felicità e benevolenza, 214). Come per l’uomo il mangiare e il bere non è un mero fatto biologico, così non lo è neanche il sesso e la generazione umana ad esso connesso. Per gli uomini la domanda sulla loro origine è di grandissima importanza. Così, secondo Lévi-Strauss, si può verificare in ogni cultura la distinzione tra unioni libere e unioni legittime (The Family, in H.L. Shapiro, ed., Man, Culture and Society, Oxford 1971, 340). Nessun’ingegneria sociale sarà capace di cambiare questo interesse fondamentale di conoscere e veder protetta la nostra origine, interesse radicato nella natura umana e che spinge le culture a custodire e ordinare il rapporto tra uomo e donna. La famiglia è l’istituzione che protegge l’origine della persona, ne trasmette il linguaggio, i simboli e le narrazioni. 

È la famiglia che unisce le generazioni. Permette che i valori e le intuizioni di una comunità si trasmettano alla successiva generazione,  senza questa trasmissione, ci sarebbe soltanto la gente di oggi e la gente di ieri. Nessuno potrebbe dire «cento anni fa noi italiani / noi tedeschi / noi francesi abbiamo fatto questo o quello». Senza famiglia non c’è nessun popolo, nessuna comunità, ma soltanto individui. E dato che matrimonio e famiglia non si definiscono a partire dall’affetto (senza, certo, escluderlo), ma dal compito di trasmettere e proteggere l’origine della persona, una relazione che è intrinsecamente incapace di generare oppure che a causa della sua fragilità è inadeguata per questa missione, non potrà chiamarsi matrimonio, come neanche possono dirsi famiglia i rapporti umani basati sull’arbitraria decisione della volontà personale e privata che prescindono del tutto dalle relazioni generative. E anche se i partner di unioni dello stesso sesso potrebbero pretendere la custodia di un bambino, rivendicando così un ruolo di educatori, quel ruolo non è intrinsecamente correlato al loro rapporto. 

Per le coppie di sesso opposto, che potenzialmente fanno nascere i figli, l’educazione non è altro che la continuazione della generazione con altri mezzi. Vengono riconosciuti dalla società perché hanno una missione che nasce dal loro rapporto. Con i partner dello stesso sesso, la missione educativa, dove c’è, non nasce dal loro rapporto, ma dalla forza di una legge umana. Questi unioni non vengono riconosciuti a causa della loro missione educativa, ma – almeno sul livello del dibattito pubblico – la missione educazione è in funzione del riconoscimento. 

Nelle società post-moderne si tende a decostruire le tradizioni, i valori e il legame con il passato. Perciò i rapporti tra le persone sono anti-culturali e anti-familiari, che alla fin fine è la stessa cosa. Allo stesso tempo questa “cultura” postmoderna pretende di essere universale. Dichiara come verità immutabile l’inesistenza della verità. Il suo “vangelo” è che le persone sono autonome e indipendenti. Come ogni individuo è capace di conoscere e valutare a modo suo, così potrà anche vivere a modo suo: in isolamento e alienazione. Come le persone vivono da soli, così muoiono da soli. Non è insolito leggere nelle cronache di persone scomparse che vengono poi trovate nei loro appartamenti mesi dopo la loro morte. Nessuno li aveva cercati. È questa una conquista culturale? Non ci è forse permesso giudicare questa “cultura”? 

Se invece siamo convinti che le culture possono e devono essere giudicati, quale è il criterio migliore per valutarli se non esaminare come trattano il fondamento della cultura, cioè, la famiglia? Come dice papa Francesco: «La globalizzazione e l’individualismo postmoderno favoriscono uno stile di vita che rende molto più difficile lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone e non è favorevole per promuovere una cultura della famiglia. Qui si apre un nuovo campo missionario per la Chiesa, ad esempio nei gruppi di famiglie dove si crea spazio per le relazioni interpersonali e con Dio, dove può crescere una comunione autentica che sana le ferite, costruisce ponti, va in cerca dei lontani e aiuta «a portare i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). La famiglia è, quindi, un luogo privilegiato per l’evangelizzazione e per la trasmissione della fede (Papa Francesco, Discorso ai presuli della conferenza episcopale austriaca in visita “ad limina apostolorum”, Roma, 30 gennaio 2014).

*Professore ordinario di Antropologia Filosofica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, Roma

 

Giovedì, 11 febbraio 2016, alle ore 17.00 si svolgerà una conferenza pubblica sul tema della famiglia con ingresso libero (Auditorium del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, Piazza S. Giovanni in Laterano, 4, 00120 Città del Vaticano). Per più informazioni: http://www.istitutogp2.it