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GILET GIALLI

La Francia sull'orlo di una crisi politica e civile

Le immagini di studenti inginocchiati, con le mani sulla nuca, con i poliziotti che li tengono sotto stretta sorveglianza, vengono da un liceo di un sobborgo di Parigi e hanno fatto il giro del mondo. Potrebbero essere solo l'antipasto di quel che avverrà oggi. La protesta studentesca coincide infatti con quella dei gilet gialli che oggi ricomincia

Esteri 08_12_2018
Studenti fermati dalla polizia

Le immagini di studenti liceali, inginocchiati, con le mani sulla nuca, alcuni con il volto rivolto al muro, con i poliziotti che li tengono sotto stretta sorveglianza, vengono da un liceo di un sobborgo di Parigi. Hanno fatto il giro del mondo e hanno comprensibilmente provocato l’indignazione trasversale della politica francese. Si tratta della repressione, brutale, di una protesta studentesca contro la riforma dell'istruzione. Perché tanta violenza di Stato contro un fatto quasi abituale, quale è quello di una protesta studentesca? Non è la prima volta che la polizia francese reagisce con estrema durezza, basti vedere come erano stati trattati i pacifici manifestanti della Manif pour Tout nel 2013. Il problema è che la rivolta degli studenti non è un fatto isolato, ma è uno dei tanti sommovimenti, avviati dai picchetti dei “gilet gialli”, che oggi rischiano di scoppiare in modo incontrollato.

Oggi, infatti, i gilet gialli hanno indetto una nuova manifestazione di protesta in tutte le città francesi, Parigi inclusa. Dopo i disordini di sabato, con quasi 300 feriti, oltre a danni milionari nel centro della capitale, la polizia si sta schierando per affrontare un’azione di contro-insurrezione. Gli agenti temono addirittura di dover sparare sui manifestanti, come si evince da interviste rilasciate da membri del sindacato della polizia: temono di dover reagire con forza letale ad attacchi di manifestanti armati, come è già avvenuto sabato sfiorando più volte la tragedia. Vuoi per prepararsi al peggio, vuoi per fare “terrorismo mediatico”, fonti della Dgse (servizi segreti francesi) hanno rivelato alla stampa che fra i gilet gialli vi sarebbero gruppi eversivi che mirano alla destabilizzazione, a niente meno che un “colpo di Stato”. Chi si prepara a manifestare, teme che questa retorica sia una giustificazione per imporre lo stato d’emergenza e ridurre i diritti di libera espressione, assemblea e manifestazione. Chi, però, ricorda i moti di Parigi della settimana scorsa e ha subito la distruzione di proprietà, come auto, negozi e vetrine, teme che ci sia molto di vero in queste rivelazioni. E non vedrebbe di cattivo occhio neppure l’imposizione di uno stato d’emergenza per evitare ulteriori devastazioni. Il movimento dei gilet gialli non ha una struttura, né una gerarchia, né un servizio d’ordine efficace, non ha neppure dei referenti universalmente riconosciuti. È innegabile che al suo interno si sia infiltrato di tutto, anche gruppi di estrema destra (visibilissimi, con le loro bandiere nere con croce celtica) e black block anarco-comunisti, oltre a tanti comuni teppisti che mettono a soqquadro Parigi ogni volta che ci sono manifestazioni di massa.

Il problema è prima di tutto politico. La protesta dei gilet gialli è iniziata d’estate con una petizione per chiedere la riduzione delle tasse sul carburante (imposte per motivi ecologici, nel nome della lotta al riscaldamento globale). Poi dalla petizione è diventata una protesta di massa, soprattutto nelle province dove è più necessario l’uso dell’auto. E nelle settimane successive è diventata qualcosa di molto più grande e diffuso: una serie di rivendicazioni sociali, politiche, economiche, da parte di gruppi auto-gestiti con obiettivi spesso in contraddizione fra loro. Pare che rancori e odi repressi, per ingiustizie subite o anche solo percepite, abbiano trovato la loro immensa valvola di sfogo, all'improvviso, tutti in una volta. Il movimento poliforme è diventato una sorta di sfida al potere e all’élite genericamente intesa. I protestatari chiedono tutto ciò che i governi democratici hanno di volta in volta promesso, ma che i conti pubblici o le necessità imposte dalle relazioni internazionali non hanno permesso di elargire. La lista delle richieste è economica con sfumature libertarie (tetto massimo del 25% all’imposizione fiscale) e al tempo stesso stataliste (aumento delle pensioni, aumento delle assunzioni pubbliche, case popolari per tutti, riduzione delle dimensioni delle banche). È politica con sfumature di democrazia diretta (nuova costituzione “del popolo e per il popolo”), di liberalismo (fuori lo Stato dall’educazione, dalla famiglia, dalla sanità e dai media), di socialismo (divieto delle lobby, lotta all’evasione fiscale, stop alle privatizzazioni, piano di educazione nazionale) e di nazionalismo (uscita della Francia dall’Ue). C’è un programma ecologista (no agli Ogm, lotta alla plastica e all'obsolescenza programmata), ma anche reindustrializzazione (perché le importazioni inquinano… e le industrie no). C’è dell’anti-imperialismo militante (uscita della Francia dalla Nato, stop alle ingerenze nell’Africa francofona, pacifismo) e dell’anti-immigrazionismo (lotta all’immigrazione clandestina e contrasto delle sue cause). È dunque difficile trovare un filo conduttore in tutte queste richieste, impossibile trovarvi una coerenza e quasi certamente un partito politico che dovesse nascere da questa protesta, oppure cavalcarla, dovrebbe cancellare almeno la metà dei punti programmatici.

Il presidente Macron e il governo Philippe hanno ignorato completamente la protesta quando questa montava. Esemplare l’episodio della visita del presidente a Verdun, il 9 novembre scorso: quando un anziano gli ha riferito dell’oppressione causata dalle nuove tasse ecologiste sul carburante, il capo di Stato gli ha risposto con un atteggiamento da sovrano assoluto: “Quando cambiamo le cose, sconvolgiamo le vecchie abitudini e la gente non è necessariamente contenta”. La settimana dopo, 300mila persone erano già sulle strade a bloccare il traffico. E il presidente li ha ignorati di nuovo. Dal governo Philippe è arrivato solo il suggerimento di usare di più i treni e i mezzi pubblici, o di comprare le auto elettriche. Alla fine la protesta è andata fuori controllo, ma solo dopo le violente proteste di Parigi, una settimana fa, il governo Philippe si è degnato di “congelare” l’aumento delle tasse sul carburante. Scavalcando il primo ministro del governo del suo stesso partito, Macron ha direttamente annunciato l'annullamento delle imposte. E ha promesso di recuperare il gettito con una patrimoniale, per colpire i francesi più ricchi. Una tassa che era stata rimossa proprio per volontà di Macron e che non è affatto detto che venga realmente reintrodotta.

Troppo poco e troppo tardi: ormai il movimento dei gilet gialli si è, appunto, trasformato in un moto politico di ribellione generale, non basta più una concessione sul prezzo del carburante, adesso, per farlo sgonfiare. È un segnale controproducente: solo la protesta violenta ha smosso il governo. Dunque: la violenza paga. Colpendo i ricchi a beneficio dei poveri Macron ha inoltre legittimato l’invidia sociale, proprio quella che si era ripromesso di combattere, dopo che le politiche punitive dei suoi predecessori socialisti avevano fatto fuggire imprenditori e capitali dalla Francia. Oggi, se Parigi si sveglia con 8000 poliziotti per le strade e il centro blindato, lo si deve anche a questi madornali errori commessi da un giovane presidente che forse è sin troppo sicuro di sé.