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NEO-OTTOMANI

La Nato, a 70 anni, scopre il cavallo di Troia: la Turchia

In occasione del 70° anniversario della Nato, volano accuse fra Usa e Turchia. Trump punta il dito contro Ankara per l'acquisto dei missili russi S-400 e sospende la vendita degli F-35. È solo l'ultimo dei tanti litigi. Il problema di fondo è che la Turchia ha cambiato natura. Quando aderì alla Nato era una repubblica laica, oggi è islamica.

Esteri 05_04_2019
Erdogan e Trump

Proprio in occasione delle celebrazioni del 70mo anniversario della Nato (l’Alleanza nata il 4 aprile 1949), volavano accuse reciproche fra Usa e Turchia. Il vicepresidente americano Mike Pence ha chiesto chiaramente alla Turchia da che parte vuole stare, considerando il suo piano di acquisto dei sistemi anti-aerei russi S-400. La Turchia è un membro importante, imponente, dell’Alleanza. Non può essere ignorata. Ma proprio per questo è fonte di preoccupazioni crescenti.

Il vicepresidente americano Mike Pence ha fatto il suo aut-aut alla Turchia nel corso di un suo discorso celebrativo dell’Alleanza Atlantica. “Non rimarremo a guardare – ha detto – mentre un alleato della Nato compra armi dai nostri avversari, armi che minacciano la coesione stessa di questa alleanza”. Già l’amministrazione Trump era stata chiara, lunedì scorso, quando aveva annunciato la sospensione della consegna alla Turchia dei nuovi cacciabombardieri F-35, a causa dell’acquisto turco dei sistemi missilistici russi S-400. L’idea di assistere ad esercitazioni in cui i missili russi “abbattono” i nuovi caccia della Nato non sarebbe solo grottesca. Potrebbe essere pericolosa. Il generale Curtis Scaparrotti (comandante supremo delle forze alleate in Europa), nella sua relazione di un mese fa al Congresso, suggeriva quali fossero i maggiori problemi. “Se si accetta che vengano installati sistemi S-400 in Turchia, il primo problema è che non sono integrabili con i sistemi Nato, né possono essere usati all’interno del nostro sistema integrato di difesa missilistica”. Il secondo è che “possono essere un problema per qualunque aereo, ma per l’F-35 in particolare”. Il generale, così come molti altri suoi colleghi della Nato ritiene che, con gli S-400 in Turchia, la Russia sia in grado di collezionare una gran quantità di informazioni sui cacciabombardieri di quinta generazione.

La Turchia sembra finora decisa a non fare passi indietro. “L’accordo per l’acquisto degli S-400 – ha dichiarato il ministro degli Esteri turco Cavusoglu – è già concluso con successo e non faremo passi indietro”. Secondo Cavusoglu non è legittima l’espulsione della Turchia dal programma F-35, perché l’industria bellica turca è coinvolta nella loro costruzione. Una decisione in tal senso “avrebbe ripercussioni negative” anche per gli Usa. E non si sa se quest’ultimo passaggio debba essere interpretato più come una minaccia o come una previsione economica.

Non è la prima volta che Usa e Turchia giungono ai ferri corti. Certo fa particolarmente sensazione che lo facciano anche nel corso delle celebrazioni del 70mo anniversario della Nato. La Turchia è un membro molto importante dell’Alleanza: è il secondo esercito di terra più grande (350mila uomini e mezzo milione di riservisti) ed è uno dei Paesi che spendono di più in assoluto. La Turchia è, almeno sulla carta, una delle potenze più virtuose. Senza contare la sua posizione geografica che, anche nel mondo odierno, a cavallo fra Russia, Europa, Caucaso e Medio Oriente, è di fondamentale importanza strategica. Il problema è che si arma per degli interessi nazionali che sempre più raramente coincidono con quelli del resto dell’Alleanza.

La prima crisi che si ricordi è immediatamente successiva all’ascesa di Erdogan al governo. Già nel 2003, alla vigilia della guerra in Iraq, il nuovo governo dell’Akp negava agli Usa l’uso delle basi e il transito sul suo territorio. Gli americani furono costretti ad apportare cambiamenti dell’ultimo minuto al loro piano di guerra, che inizialmente prevedeva anche un’invasione dell’Iraq dal Nord, cioè dalla Turchia. Nel 2007, i turchi interferirono ancora con le operazioni in Iraq, lanciando un’offensiva in profondità nel Kurdistan iracheno, senza dare agli alleati il tempo necessario a organizzarsi. Nel 2010, la crisi provocata dall’abbordaggio israeliano della nave Mavi Marmara (con volontari e aiuti per Hamas a Gaza) portò alla rottura delle relazioni fra Turchia e Israele e coinvolse solo indirettamente l’amministrazione Obama. Che si ritrovò costretta, però, a dover mediare fra due alleati divenuti improvvisamente fra loro nemici. La crisi peggiore iniziò con la guerra civile in Siria, quando la Turchia si ritrovò in prima linea, investita da un’ondata di profughi senza precedenti e sulla linea del fuoco. Per proteggere i civili turchi da eventuali lanci di razzi e missili, la Nato schierò alcune batterie di missili Patriot al confine meridionale, fino al 2015. Nel 2014, primo anno del nuovo Califfato dell’Isis, la Turchia si trovò ancora nell’occhio del ciclone. A pochi chilometri dal confine, l’Isis assediò la città curda di Kobane, nel Kurdistan siriano. I turchi assistettero passivamente allo scontro fra i loro due nemici (i curdi e i jihadisti), lasciando che l’Isis bombardasse, assediasse e riducesse in macerie la città. Reportage giornalistici attendibili riportarono che gli jihadisti potessero entrare nei confini turchi, rifornirsi e tornare al fronte, senza che l’esercito turco intervenisse. Solo dopo mesi di pressioni, i turchi acconsentirono al passaggio di rifornimenti e di volontari per i curdi, che infine vinsero la battaglia.

L’anno nero dei rapporti fra Nato e Turchia resta comunque il 2016. Prima di tutto per il sospetto che vi fosse una collaborazione organica fra la Turchia e le milizie del Califfato. In secondo luogo per le conseguenze immediate dell’incidente di confine del novembre 2015, quando un F-16 turco abbatté un cacciabombardiere Su-24 russo, al confine con la Siria. Questo grave incidente militare avrebbe potuto anche trascinare tutta la Nato in un conflitto non desiderato. Nel luglio del 2016, dopo il fallito golpe contro Erdogan, quest’ultimo ha accusato Fethullah Gulen di aver complottato per rovesciare il suo potere, e di conseguenza anche gli Usa per averlo ospitato. Da quel momento in poi, la Turchia ha ricominciato ad avere buoni rapporti con la Russia, come contrappeso con gli Usa. Negli ultimi tre anni, Erdogan è sempre meno riconoscibile come membro della Nato.

Il problema, da parte occidentale, è quello di non riconoscere l’ovvio: dal 2002 la Turchia è sempre meno una repubblica democratica e sempre più uno Stato islamico. Quando era entrata nella Nato, nel 1952, il suo governo era laico e discendeva direttamente da Kemal Ataturk, il padre della moderna repubblica che aveva abolito il sultanato trent’anni prima. Il ruolo della Turchia era sempre stato quello di bastione meridionale contro l’Urss, poi anche di bastione settentrionale contro i regimi più anti-occidentali del Medio Oriente arabo e infine quello di diga occidentale al dilagare dell’Iran sciita e rivoluzionario. L’Akp sta invece recuperando gradualmente il ruolo di nazione al centro del mondo islamico, di conseguenza anche della sua politica imperiale ottomana. Non è un’esagerazione giornalistica chiamare “neo-ottomana” la politica dei governi islamici guidati da Erdogan, specie adesso che è presidente con poteri sempre più autoritari. Prima con la politica di buon vicinato con l’Iran e con i Paesi arabi, poi con il suo sostegno attivo alle primavere arabe e ai Fratelli Musulmani, la Turchia ha cambiato letteralmente natura. Per questo, al di là dei singoli screzi, la sua partecipazione alla Nato appare ormai anacronistica.