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LE DENUNCE E IL RAPPORTO EUROPEO

La Norvegia che ruba i figli ai genitori al vaglio dell'Europa

Dopo le proteste e la vittoria della famiglia Bodanariu, che si vide sottrarre cinque figli dai servizi sociali norvegesi, a cui seguirono denunce ed inchieste giornalistiche, per la prima volta la Grande Camera della CEDU ha accettato di riesaminare un caso simile. A rappresentarlo in Europa è stata L'"ADF International", che ha spiegato alla NuovaBQ.it le falle di un sistema che agisce senza prove, provocando fra le peggiori delle ingiustizie.

Libertà religiosa 28_10_2018

Dopo un recente rapporto dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (PACE) sull’azione allarmante del Child Protection Service (Cps) dei servizi sociali norvegesi, che ogni anno allontanano migliaia di bambini da casa, per la prima volta la Grande Camera della CEDU ha accettato di riesaminare il caso (Strand Lobben v. Norway) di una famiglia che ha perso la custodia dei figli. 

Questo è stato possibile anche grazie alle proteste internazionali (organizzate dalle comunità evangeliche) in seguito al caso dei coniugi Bodnariu di origine rumena ma residenti in Norvegia, separati dai propri cinque figli nel 2015 per via della loro educazione cristiana. La vittoria finale della famiglia ne ha portate altre a raccontare le loro vicende alla stampa che ormai aveva acceso i riflettori sul problema. Fra queste c’è l’inchiesta video del 2016 della DwNews tedesca e la più recente della Bbc, di cui abbiamo già raccontato. Dalla prima indagine emerse il caso di una famiglia a cui la figlia fu tolta appena nata, per il passato di droga e carcere del padre (anche lui separato dai genitori quando era piccolo) senza tener conto che da anni l'uomo aveva cominciato a vivere un’altra vita. Mentre Anne Kathrine Eckbo-Fangan, ex dipendente del Cps, aveva spiegato alla DwNews di aver lasciato il suo lavoro per problemi di coscienza, perché «bisognava rimuovere il più in fretta possibile i bambini da casa che dovevano vivere, senza possibilità di discussione, con le famiglie adottive fino ai 18 anni», c’erano poi liste di individui «sospetti», solo per il fatto di essere «poveri, malati, genitori senza lavoro, famiglie senza parenti…». 

Anche una sculacciata è bastata in diversi casi a far intervenire i servizi sociali, abituati però ad usare metodi poco ortodossi e approvati da un sistema per cui una 15enne è stata addirittura immobilizzata dalla polizia perché voleva ritornare in casa dalla sua famiglia. Persino una dipendente norvegese dell’Ufficio welfare per i bambini, la signora Grogvig, intervistata aveva ammesso che è normale che accadano attriti fra il sistema e le famiglie di origine straniera, «perché noi abbiamo la nostra definizione di cosa è meglio per il bambino». 

Ma non è solo una questione culturale: un avvocato norvegese, Olav Sylte, aveva fatto notare che il sistema agisce in contrasto alla norma internazionale per cui non si devono allontanare i bambini di casa se non come estrema ratio. Dalle tante storie raccontate dalla Sbs ne emerge una a dimostrare che nel caso una persona sia stata presa in adozione da bimba, e successivamente diventi madre o padre, sarà sorvegliata dai servizi sociali che potrebbero portarle via il neonato subito dopo il parto senza altre ragioni.

L’ADF International (Alliance Defending Freedom International), che si batte contro il potere coercitivo degli Stati e ha rappresentato il caso Strand Lobben in Europa, spiega alla NuovaBQ, per voce della legale Laurence Wilkinson, che il funzionamento del Cps è ben riassunto proprio «nel rapporto dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, particolarmente dal paragrafo 16 al 23, in cui si legge che questi casi hanno inizio quando qualcuno manda una notifica al servizio di assistenza dei minori (Barnevernet) che può provenire da un vicino, un amico o un parente, ma anche da autorità pubbliche come insegnanti, personale sanitario o agenti di polizia». 

Nel rapporto si fa notare anche che il numero di notifiche aumenta ogni anno, «da poco più di 37.000 nel 2008 a poco più di 58.000 nel 2016» e che poche vengono respinte, perciò i servizi di assistenza per i minori raccoglieranno tutte le informazioni necessarie, avvalendosi di esperti per «prendere una decisione informata entro tre mesi (fino a sei in casi particolari) sulle misure da attuare». Questa prima fase di indagine, si legge nel rapporto, è «segnalata da molte famiglie come la più stressante», perché la visione che hanno del Barnevernet «non è assolutamente positiva, molte famiglie temono che i loro figli saranno portati via…in particolare, se non sono di origine norvegese». I casi possono finire in interventi di diversi tipi, spiega Wilkinson, se invece il «Barnevernet ritiene che il bambino debba essere rimosso dai suoi genitori, dopo l’indagine deve fare richiesta al “County Social Welfare Board”». Il numero di bambini affidati ai Servizi di assistenza per l’infanzia - emerge dal rapporto - è aumentato del 52% tra il 2008 e il 2012. 

Ma perché il Barnevernet tende ad allontanare i figli da casa con accuse vaghe che spesso si rivelano infondate? «La legge Norvegese - continua Wilkinson - solitamente permette che il bambino sia allontanato dai genitori per motivi gravi, ma siccome la disposizione è poco chiara, vi sono state molte critiche sul fatto che il Barnevernet rimuove i bambini con ragioni deboli come queste: “possibili danni emotivi futuri”, “incapacità di confortare un bambino”, “incapacità di stabilire delle regole” o “mancanza di capacità genitoriale” (come si legge nel paragrafo 19). Perciò alla fine del 2016, l'1,1% dei bambini in Norvegia viveva fuori casa. 
 
La maggioranza dei casi riguarda famiglie straniere e la ragione si trova sempre nel rapporto che parla di fraintendimenti culturali da parte del Barnevernet. Inoltre nei paragrafi 42 e 43 si svela che, «nella maggior parte dei paesi, il numero di interventi e di decisioni di allontanamento è aumentato» e che «è sconcertante che l'approccio preventivo (dei servizi sociali nordeuropei, ndr)…non abbia portato ad un calo di interventi di allontanamento». Fra gli altri motivi che spingono alle separazioni emergono «una crescente avversione al rischio tra gli assistenti sociali…a causa di alcune tragedie pubblicizzate di bambini che muoiono per mano dei loro genitori». Ma si parla anche della possibile «discriminazione» di genitori di classi non agiate «poveri, ignoranti, migranti», così come di «genitori con una storia di malattia mentale o abuso di sostanze o un passato criminale» e persino di «minoranze religiose». Ma c’è di più, perché è emerso che il 20% degli assistenti sociali non è competete.  

Come poi sia possibile che in diversi casi (come questo), anche se le accuse contro la famiglia cadono, i bambini rimangono nelle famiglie affidatarie, Wilkinson lo spiega così: «Le ore di visita concesse ai genitori sono molto poche (vedi paragrafo 33), perciò, anche se le accuse cadono, la giustificazione data è questa: ormai i bambini si sono ambientati nella nuova casa, perciò farli tornare dalle loro famiglie di origine non è nel loro "miglior interesse". Questo è accaduto anche nel caso di Eva Michalakova: le accuse contro il padre sono cadute ma né lui né la madre sono stati riuniti ai figli».  
 
Molte famiglie lamentano poi che i tribunali stiano a priori dalla parte del Cps «il rapporto - continua Wilkinson - parla proprio di questo problema per cui nel 90% dei casi i County Social Welfare Boardses (primo appello) eseguono gli ordini emessi dal Barnevernet e sempre nel 90% dei casi le corti distrettuali d’appello fanno lo stesso. Sono pochissime le sentenze ribaltate (o almeno prese in esame) dalla Corte d’Appello e dalla Corte Suprema. Ciò fa pensare che i tribunali siano molto restii nel prendere posizioni contrarie al Barnevernet. Il tutto aggravato dal fatto che la rappresentanza legale dei genitori e del Barnevernet nella pratica non è equa». Ma le famiglie parlano anche di bonus ai dipendenti del Cps e di pagamenti alle famiglie adottive per ogni bambino ospitato. Secondo Wilkinson «non ci sono evidenze provate sul fatto che i dipendenti del Cps ricevano premi, ma sicuramente le famiglie affidatarie sono ben pagate».

Basti pensare a quanto emerso dalle cronache: Peer Salström-Leyh, un uomo d'affari norvegese-tedesco ha costruito un impero di case adottive in sette paesi europei. Definitesi come organizzazioni senza scopo di lucro, le fondazioni private di Salström-Leyh hanno accesso ad una riserva di miliardi di corone norvegesi provenienti dalle tasse dei cittadini (fondi pubblici) e non pagano neppure le tasse sui propri profitti. Inoltre, faticando a trovare tante famiglie quanti sono i bambini rimossi, il Servizio di welfare statale ha approvato delle tariffe di finanziamento delle famiglie adottive, e quindi delle strutture che si occupano degli affidi, che hanno permesso alla fondazione Salström-Leyh di ricavare un profitto di 52 milioni di corone (5.467.800 di euro) in quattro anni. «I soldi dei contribuenti norvegesi sono stati quindi spesi per salari generosi e pagamenti di bonus», denuncia il Vg Sporten.

Sul fatto che i bambini rimossi da casa spesso diventano persone problematiche (droghe, alcol, etc.) Wilkinson segnala studi (come questo) che rilevano «preoccupazioni per la salute mentale dei bambini norvegesi allontanati dalle loro famiglie e affidati ad altre famiglie», da cui emerge che il 48,8% dei giovani affidatari ha dato segni di problemi di salute mentale. Senza dimenticare i danni a quella dei genitori che dovranno convivere ogni giorno con una delle ingiustizie peggiori che possono capitare ad una famiglia.