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FRANCIA

La rivolta dei giubbetti gialli contro le accise ecologiste

“Quando è troppo è troppo”. Così si è espresso uno dei manifestanti che venerdì scorso, indossati i giubbetti gialli, hanno manifestato sulle strade francesi per esprimere il loro dissenso verso un ulteriore aumento delle accise sui carburanti. In Francia il caro-benzina è causato da un fisco esoso che si ammanta della causa ecologista della riduzione delle emissioni di CO2. Per cui la tassa sulla benzina è vista come strumento di lotta contro il riscaldamento globale. Ma l'impatto sul clima è minimo, mentre quello sul portafogli della gente comune è enorme. E i francesi si sono ribellati. E da noi? La benzina costa ancora di più, a causa delle accise. 

Economia 21_11_2018
Giubbetti gialli, confronto con la polizia

“Quando è troppo è troppo”. Così si è espresso uno dei manifestanti che venerdì scorso, indossati i giubbetti gialli, hanno manifestato sulle strade francesi per esprimere il loro dissenso verso un ulteriore aumento delle accise sui carburanti. Non accade spesso che si riescano a convincere centinaia di migliaia di persone a protestare contro un fisco troppo esoso. Da noi, l’ultima rilevante manifestazione che si proponeva di denunciare l’ingordigia fiscale si tenne a Torino nel 1996, guidata da Sergio Ricossa insieme ad Antonio Martino e a Gianni Marongiu. Fu quasi un’eccezione alla regola che prevede si manifesti nelle piazze per chiedere al Governo in carico più spesa pubblica, quasi sempre a favore di chi marcia e a carico di tutti i contribuenti.

Un segnale, quello che viene dalla Francia, che sembra rendere esplicita una condizione di “troppo pieno” per i contribuenti francesi. Non appare peraltro diversa la situazione in Italia. Se nel mese in corso in Francia un litro di benzina costa agli automobilisti in media 1,551 euro nel nostro Paese l’ultimo prezzo al consumo rilevato dal Ministero dello sviluppo economico si attesta a 1,637 euro di cui 1,024 (il 62%) di accise. Per ogni ottanta euro spesi al distributore, solo trenta finiscono per così dire nel serbatoio; gli altri cinquanta sono appannaggio dello Stato.

Il nuovo giro di vite per gli automobilisti è motivato secondo François de Rugy, il ministro della Transizione ecologica, dalla necessità di contenere gli effetti del cambiamento climatico. Ora, è indubbio che lo strumento più efficiente ed equo per ridurre le emissioni di anidride carbonica sia rappresentato dall’adozione della cosiddetta carbon tax e non dall’applicazione di una miriade di interventi di regolazione e di sussidio. Ma est modus in rebus. In base alle valutazioni di W. Nordhaus, tra i primi economisti a occuparsi fin dagli anni ’70 dei possibili effetti delle emissioni di CO2 in atmosferica e da poco nominato Nobel per l’economia, la carbon tax dovrebbe inizialmente essere fissata a poche decine di dollari per tonnellata emessa – 36 dollari secondo l’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti -  e poi salire progressivamente fino a raggiungere i 100 dollari nel 2100.

Nell’avanzare la sua proposta, De Rugy (e molti altri come lui) sembra dimenticare un piccolo dettaglio: che la carbon tax per i carburanti in Europa c’è già da tempo. Non solo, il suo livello è all’incirca dieci volte superiore a quello ottimale. L’attuale prelievo fiscale sulla benzina corrisponde infatti a un’imposizione per tonnellata di anidride carbonica emessa intorno ai 300 euro ed è tale per cui tutti gli impatti ambientali correlati all’uso dell’auto sono già “internalizzati”. Non vi è dunque ragione per innalzarlo ulteriormente. Ve ne sarebbero, al contrario, per ridurlo anche in considerazione delle sue caratteristiche regressive: i più poveri spendono per l’acquisto dei carburanti una quota del proprio reddito maggiore rispetto ai più abbienti. Per poterlo fare occorrerebbe però ridurre simmetricamente la spesa pubblica. Nel settore dei trasporti esistono significativi margini di manovra sia conseguendo maggiore efficienza nella produzione dei servizi di trasporto – i costi di produzione italiani sono doppi e nei casi peggiori, come ad esempio quello di Roma, quasi tripli rispetto a quelli delle aziende europee più efficienti – sia con un’attenta rivalutazione della spesa per investimenti, soprattutto quelli per il trasporto su ferro, anch’essi abitualmente sostenuti sulla base delle loro virtù ambientali in assenza di una valutazione di costi e benefici. Al riguardo occorre ricordare come, pur in presenza di un significativo miglioramento dei trasporti pubblici, solo una quota molto modesta di spostamenti – parte di quelli diretti verso le aree centrali delle maggiori città - non verrebbe più effettuata in auto.

Gli effetti in termini di riduzione delle emissioni a livello nazionale sarebbero quasi trascurabili; in Svizzera, Paese che dispone della migliore offerta di trasporti collettivi in tutta l’Europa, la quantità di anidride carbonica emessa per persona nel settore dei trasporti è del 25% più alta che in Italia. Inoltre, nel lungo periodo, l’Europa avrà un peso via via più marginale sul totale delle emissioni mondiali: dal 20% del 1990 la quota attribuibile alla UE28 è già scesa sotto il 10% e nei prossimi decenni è destinata a ridursi ulteriormente. La “partita” dei cambiamenti climatici non si gioca quindi in casa e potrà essere vinta, come già in larga misura accaduto per l’inquinamento locale, solo grazie alla innovazione tecnologica. L’unico risultato che ci si può attendere da un ulteriore inasprimento della pressione fiscale sui carburanti è quello di una riduzione del reddito disponibile per milioni di famiglie le cui esigenze di mobilità non potranno mai essere soddisfatte da una nuova linea di metropolitana o di alta velocità. Un altro passo verso una decrescita assai poco felice. In Francia molti sembrano averlo intuito. E in Italia?