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IL DISCORSO

La sconfitta che l'ex premier ignora

Il discorso della sconfitta di Matteo Renzi, da molti citato come esempio di sincerità e arte oratoria, è invece la spia di un declino della cultura politica del paese. Il premier (ormai ex) non ha compreso che gli italiani non sono arroccati sullo status quo, ma hanno rifiutato il cambiamento proposto da lui, che non ha neppure saputo spiegare.

-ANCHE I RICCHI VOTANO (SI') di Matteo Borghi

Politica 06_12_2016
Renzi, il discorso della sconfitta

Quando gli storici analizzeranno la crisi della politica e della tempra del nostro Paese, il discorso con cui Matteo Renzi ha annunciato le proprie dimissioni sarà probabilmente preso ad esempio. Un leaderismo rigonfio di presunzione e di generiche buone intenzioni ma senza solide basi culturali e senza radicamento nella vita reale del popolo è infatti la cifra del momento presente. Una cifra certo non solo renziana e che anzi affonda le radici venefiche — diciamolo — in quella stagione di Mani Pulite nella quale si affermò, quasi sempre in cattiva fede, che per reagire allo sbriciolarsi della tempra culturale, morale e civile del popolo — e non solo dei politici… — era indispensabile e sufficiente cambiare le regole. Ci raccontarono insomma che per risanare la vita associata e la politica bastava togliere le preferenze e fare qualche maquillage elettoral-istituzionale.

Serviva invece e serve una ripresa delle ragioni del vivere e del vivere insieme, un lavoro educativo profondo, una formazione delle persone che in passato in larghissima misura era stato svolto dalla comunità cristiana con tale forza e pervasività da contagiare beneficamente anche chi di quella comunità non faceva parte. Era l’Italia di don Camillo e di Peppone, un’Italia che certo non tornerà in quelle forme ma che dovrà sbrigarsi a trovare forme nuove per ridar vita a quel modo di guardare al bene della persona e delle persone. A quello che una volta si chiamava bene comune da coltivare con spirito di servizio.

Ci sono, tornando all’oggi, momenti-verità in cui, per dirla con Dante, “si parrà vostra nobilitate”. E la notte scorsa era uno di quei momenti. Colpisce, e molto, nel discorso di Renzi — che pure impressionerà non pochi per l’abile e anche sincera aura di autenticità — l’assoluta mancanza di comprensione di quanto realmente accaduto che, appunto, tradisce l’assenza di basi culturali profonde, di consistenza politica reale che vada al di là delle buone intenzioni — “volevamo cambiare il Paese” — e di quel mix di potere sprezzante e di furba comunicazione che ha caratterizzato il suo governo e che impiastriccia anche il poco di buono che ha realizzato. Renzi, infatti, dimostra di non aver capito che la valanga di No non è un rifiuto del cambiamento, ma un rifiuto di quel tipo particolare di cambiamento da lui proposto. 

Tutti gufi, amanti della casta, fossilizzati nel “vecchio” i 19 milioni e mezzo di italiani che hanno votato No? Difficile sostenerlo. Ma allora in quel discorso sarebbe servita non dico l’autocritica ma il riconoscimento che c’era qualcosa che non andava nell’approccio del “sistema renziano”, nelle sue narrazioni, nel suo modo solitario quando non solipsistico di porsi, nell’atteggiamento non solo non inclusivo ma anzi escludente messo in campo in tutti gli atti di governo. Tutti modi di essere e di fare che, oltre tutto, celavano un dilettantismo drammatico: attaccare i “professoroni” si può, ma solo se poi si dimostra almeno di saper scrivere le leggi, per non parlare delle Costituzioni.

Sintomatico il riferimento alle “poltrone” — costante “claim” della campagna — e alla “sua poltrona”. Sembra un punto marginale ma non lo è. Infatti può essere comprensibile che parli di “poltrone” chi è fuori dalle stanze del potere, ma se lo fa chi il potere ce l’ha i casi sono due, spesso associati: o vuole ingannarvi blandendovi o è drammaticamente lontano dalla concezione del potere come responsabilità. 

Ma come? Dicevi e dici di avere un’idea, una vision…, del Paese, hai condotto una strategia e una tattica lucide e a tratti spregiudicate — per ragguagli, citofonare Letta — per arrivare a palazzo Chigi; sai di non esserti mai sottoposto al vaglio elettorale; costruisci un’operazione che lega alle tue sorti personali gran parte del destino del Paese creando — all’opposto di quanto fecero i Costituenti — un cortocircuito tra la Costituzione e il governo pro tempore; ignori i richiami di chi ti avverte dell’errore; conduci una campagna tutta centrata sull’“o la va o la spacca” e poi, quando il popolo finalmente chiamato a dire la sua ti dice che così non va, dici che lasci la “poltrona” perché “non sei come gli altri”? 

Ma che concezione hai del potere e della responsabilità che ne deriva? Dovresti sapere, ora se non altro per esperienza, che quella è tutt’altro che una comoda poltrona, è una sedia che scotta, che richiede capacità e decisioni rapide, che impone sguardo sulla gente e sulle sue necessità. Che oggi, dopo il casino che hai combinato, potrebbero anche essere drammatiche, sì, proprio come dopo un terremoto. Politico. Innescato da te. E quindi se “non la va” il bel gesto non è andarsene lasciando che la “spaccata” che hai fatto tu la gestiscano altri. Il gesto da statista è restare per poi andarsene, sì, ma solo dopo aver chiesto scusa mentre fai la tua parte chinandoti a raccogliere i cocci.

Grave quindi non aver sentito Renzi dire: “Il segnale che la nostra gente mi ha mandato è forte e chiaro. Non abbiamo saputo interpretare in modo giusto l’istanza di cambiamento che pure sappiamo essere presente nel Paese. Legare alla riforma costituzionale le sorti del Governo è stato un errore tanto più grave in un momento storico complesso e drammatico. Chiedo scusa per questo e, per confermarvi che ho capito la lezione, resto al mio posto per il tempo strettamente necessario a che si evitino conseguenze che ricadrebbero sulle spalle di tutti voi. Chiedo quindi alla maggioranza di continuare a sostenere il governo nella pienezza dei suoi poteri per dare all'estero un forte segnale e per il solo tempo necessario a mandare in porto la legge di stabilità e ad attendere il parere della Consulta sulla legge elettorale. Un minuto dopo darò le dimissioni e cercherò, se sarò ancora segretario del PD, di lavorare alla massima coesione delle forze presenti nel Paese per costruire un percorso di rapido cambiamento della Costituzione e per dare un nuovo governo al Paese. Secondo quanto ci ha detto il popolo con questo voto”.

Eh già, perché Renzi non lascia la politica. Lascia il governo. Insomma, dopo averla fortissimamente voluta, cercata e ottenuta lascia la responsabilità di guida proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno e a causa di una situazione critica innescata da lui. Ma non lascia la guida del partito il cui ruolo e peso saranno comunque determinanti sin dalle prossime ore. Per dirla ancora più chiaramente: Renzi il mandato popolare non lo aveva già prima del referendum; consapevole di ciò, lo ha cercato nel posto e nel modo sbagliato e ora, quando gli italiani gli hanno detto no, il premier completa il percorso dell’irresponsabilità lasciando l’Italia in una situazione molto pericolosa, in cui senza lo scudo di Draghi i timidi progressi del Paese verrebbero spazzati via assieme alle massime di Baden Powell.

Qualcuno dice che la reazione immediata alla botta subita non poteva che trarre argomenti dallo scarso bagaglio disponibile all’uomo. Vedremo se nelle prossime ore ci saranno segnali di maggior consapevolezza dell’accaduto e, appunto, della responsabilità di chi ha ruoli di guida del Paese oppure se l’uscita di scena prelude solo a una furba ricostruzione di verginità, a una nuova fase dello stesso film di potere spacciata, per di più, per presa di distanza dal potere medesimo.

Ma intanto resta il fatto che il percorso di Renzi e la notte del 4 dicembre segnano un passo ben più importante di una personale vicenda politica. Il popolo italiano ha infatti dato un segnale impressionante per forza e commovente per intensità, quasi un grido. Se non si vuole che a raccoglierlo ci sia solo l’ennesimo leader di cartone — nuovo o reimbiancato — che condurrebbe all’ennesima delusione o a una dittatura 2.0 è ora che chi ha cultura e radicamento sociale si dia una mossa. In primis la Chiesa italiana, con le dovute modalità in tutte le sue articolazioni, dalla gerarchia all’ultimo dei fedeli. Anche questo sarebbe un gesto di misericordia, forse il più grande, nei confronti del nostro povero Paese.

IL VOTO DEI RICCHI RENZIANI di Matteo Borghi