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GERUSALEMME

L'altra Europa che non vota contro Trump su Israele

L'Assemblea Generale dell'Onu vota contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. L'Ue si unisce al coro. Ma si divide, per la prima volta, sulla linea Est-Ovest. L'Est, il gruppo Visegrad, più Lettonia, Croazia e Romania (e la Bosnia) si astiene. Perché?

Esteri 23_12_2017
Netanyahu incontra i leader del gruppo Visegrad a Budapest (luglio 2017)

Con un voto a stragrande maggioranza (128 paesi su 193 rappresentati all’Onu), l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione di condanna della decisione statunitense di trasferire l’ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo, di fatto, la Città Santa quale capitale dello Stato ebraico. Quel che ha fatto notizia è stato il voto quasi compatto europeo contro gli Usa e la politica estera di Donald Trump. Quel che non ha fatto notizia è proprio il “quasi”. Perché sei paesi europei, cinque dei quali sono membri dell’Ue, si sono astenuti. Ed è la dimostrazione più plastica della nuova divisione in seno all’Europa.

La prima risoluzione contro la decisione statunitense è stata presentata in Consiglio di Sicurezza dall’Egitto. E’ stata votata quasi all’unanimità, ma è stata bocciata per il veto posto dagli Stati Uniti il 19 dicembre. Due giorni dopo, una risoluzione analoga è stata presentata all’Assemblea da Yemen e Turchia. Il testo della risoluzione condanna l’azione americana definendola come: “una palese violazione dei diritti del popolo palestinese e delle nazioni arabe, e di tutti i musulmani e cristiani nel mondo”. All’Assemblea è stata votata da 128 paesi, mentre 9 (inclusi Usa e Israele) hanno votato contro e 35 si sono astenuti.

Le cronache e i commenti di questi due giorni si sono scatenati nel commento alla “Waterloo” di Donald Trump all’Onu. Hanno irriso il voto favorevole a Usa e Israele che conta solo Stati piccoli, piccolissimi, poveri e beneficiari di aiuti diretti statunitensi, quali Guatemala, Honduras, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Palau e Togo. E’ noto a tutti il tono minaccioso adottato dall’amministrazione Trump prima del voto in Assemblea: chi vota contro di noi, non riceverà più i nostri aiuti. E dopo il voto, l’ambasciatrice statunitense Nikki Haley, ha ribadito: “L'America sposterà la sua ambasciata a Gerusalemme, ed è questa la cosa giusta da fare. Nessun voto alle Nazioni Unite farà la differenza. Ma questo è un voto che gli Stati Uniti ricorderanno, ricorderanno il giorno in cui sono stati attaccati per aver esercitato il loro diritto come nazione sovrana. Questo voto farà la differenza su come gli americani guarderanno l'Onu e i Paesi che ci mancheranno di rispetto. Ricorderemo questo voto”.

L’Europa, che continua a contrapporsi, sia nell’immagine che nella sostanza, alla politica di Trump, ha avuto il suo giorno di voto anti-americano. Anche il Regno Unito, fresco di Brexit, ha deciso comunque di esprimere un voto a favore della risoluzione turco-yemenita, contro Usa e Israele. Eppure la notizia vera è che l’Europa ne è uscita divisa. Il nuovo strappo l’hanno fatto Bosnia-Erzegovina (paese candidato), Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Lettonia (paesi membri dell’Ue). Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia sono tre membri su quattro del Gruppo Visegrad, che include anche la Slovacchia, unica ad aver votato a favore della risoluzione. La Repubblica Ceca, al contrario, all’indomani dell’annuncio di Trump sul trasferimento dell’ambasciata, ha anche riconosciuto Gerusalemme Ovest quale capitale di Israele.

Come si spiega questo disallineamento rispetto alle scelte strategiche di Bruxelles? C’è una causa di breve periodo, prima di tutto. Il gruppo Visegrad e l’Ue sono sempre più ai ferri corti. In primo luogo sull’immigrazione, ma pià recentemente anche sulle riforme istituzionali in Polonia. La riforma della magistratura, che è posta parzialmente sotto il controllo dell’esecutivo nel nuovo sistema, ha attirato la condanna di Bruxelles, che ha messo un monito molto pesante, ricorrendo per la prima volta all’articolo 7: sanzioni per un “chiaro rischio di grave violazione del diritto”. Per il governo polacco si tratta di una mossa politica senza alcun fondamento legale. Per un osservatore disinteressato, le sanzioni appaiono come una misura di gran lunga sproporzionata. L’Ungheria sostiene apertamente la Polonia, in questa battaglia. Anche perché il governo Orban sa di essere il prossimo nella lista, a causa della sua riforma costituzionale. Infine, ma non da ultimo, la questione dell’immigrazione ha messo i paesi esposti alla rotta balcanica del 2014-15 (fra cui la Romania, la Croazia e l’Ungheria) contro la linea di accoglienza adottata dalla Germania e dall’Italia. Il rifiuto del gruppo Visegrad ad accettare la ripartizione dei rifugiati (veri o presunti) fra i paesi d’accoglienza in tutta l’Ue, ha ulteriormente allargato il divario fra le due Europe.

Ma questo spiega una situazione contingente: un malessere fra l’Europa centrale e quella occidentale che si riflette anche nei voti all’Onu. Ma ci sono cause anche di medio termine. Paesi che tuttora portano lo stigma dell’antisemitismo, considerati seriamente a rischio fascismo, stanno in realtà tessendo buone relazioni con Israele. Il governo dell’Ungheria, prima di tutto, ha promesso a Netanyahu rapporti nuovi, che contrastino con “il pregiudizio anti-israeliano nell’Ue e all’Onu”. A Budapest, il 19 luglio scorso, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, incontrando tutti e quattro i leader del gruppo Visegrad, ha pronunciato un duro discorso contro la “folle” politica dell’Unione Europea. “Nell’interesse, non di Israele, ma della stessa Europa”, ha pregato i quattro paesi dissidenti di usare tutto il loro peso per indurre l’Ue a promuovere migliori relazioni con lo Stato ebraico.

E qui si arriva alle cause di lungo termine. Dagli anni ’70, l’Europa occidentale, a partire dalla Francia, tesse ottime relazioni con il mondo arabo. Il Dialogo Euro-Arabo iniziò all’indomani dello sciopero petrolifero dell’Opec, l’interruzione di forniture di petrolio quale risposta alla sconfitta araba nella guerra dello Yom Kippur (1973). Il Dialogo Euro-Arabo, promosso dalla Francia di George Pompidou, ha prodotto una serie di relazioni in cui la Comunità Europa (allora l'Ue non esisteva ancora) guadagna una fornitura sicura di fonti energetiche e, più di recente, anche una massiccia iniezione di capitali. In cambio, l’Europa accetta una politica ufficialmente equidistante fra Israele e Palestina, ma sostanzialmente pro-palestinese (dunque anche anti-israeliana). E l’accoglienza agevolata di forza lavoro araba. Questo patto è rimasto sostanzialmente immutato per 40 anni. I paesi del gruppo Visegrad ne sono immuni, per ovvie ragioni: negli anni ‘70 erano sotto il tallone sovietico, negli ultimi decenni, invece, non hanno assistito alla crescita di comunità musulmane di una certa consistenza al loro interno, perché avevano molto meno lavoro da offrire. Per questo sono un’Europa diversa, che vota diversamente anche sulle questioni fondamentali.