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LETTERATURA

Luna, simbolo delle nostre aspirazioni

L'astronauta italiano Luca Parmitano è da poco partito per la missione Volare: così tornano di moda lo spazio e la luna, misteri che hanno da sempre affascinato l'uomo e che trovano ampiamente eco nella letturatura, a partire da Dante, Ariosto e Calvino.

Cultura 04_06_2013
luna

Lo scorso 28 maggio l'italiano Luca Parmitano è partito per una missione spaziale dell'ESA, la missione Volare. Un fatto di cronaca con cui tornano di moda lo spazio e la luna: un mistero che ha da sempre affascinato gli uomini e che trova eco nella letteratura, come dimostra il seguente articolo.

L’interesse per il viaggio cosmico ha da sempre affascinato gli scrittori. Ci soffermiamo ora su tre autori della letteratura italiana che hanno raccontato o descritto il viaggio sulla Luna prima dell’atterraggio di Neil Armstrong il 20 luglio 1969. Si tratta di Dante, Ariosto e Calvino.
La bellezza della salita ai Cieli connota tutto il Paradiso dantesco, nel quale il protagonista salendo di Cielo in Cielo potrà, per grazia, vedere le anime dei santi (che di solito godono della letizia eterna nella Candida rosa presente nell’Empireo) divise in base alle virtù che le hanno caratterizzate in vita.
Così, nel primo canto, Dante, che si trova nel Paradiso terrestre di fronte a Beatrice, ad un certo punto inizia a vedere una luce fortissima e a sentire una musica celestiale. Sta salendo verso l’alto, sta attraversando la Sfera del fuoco che circonda la Terra ad una velocità maggiore rispetto a quella con cui i fulmini scendono dall’alto verso il basso. L’esperienza che prova è ineffabile tanto che il poeta scrive: «Trasumanar significar per verba/ non si porìa; però l’essemplo basti/ a cui esperienza grazia serba». In realtà, Dante non si è accorto di non essere più in Terra e che sta salendo verso l’alto e sarà Beatrice, sua nuova guida nel Paradiso, a spiegargli quanto sta accadendo: «Tu stesso ti fai grosso/ col falso imaginar, sì che non vedi/ciò che vedresti se l'avessi scosso./Tu non se' in terra, sì come tu credi;/ma folgore, fuggendo il proprio sito,/non corse come tu ch'ad esso riedi». Ormai purificato dopo il viaggio nel Purgatorio, il poeta è libero di salire verso le stelle, perché tutto tende verso il Cielo: «Le cose tutte quante/hanno ordine tra loro, e questo è forma/che l'universo a Dio fa simigliante./[…] La provedenza, che cotanto assetta,/del suo lume fa 'l ciel sempre quïeto/ nel qual si volge quel c'ha maggior fretta;/ e ora lì, come a sito decreto,/cen porta la virtù di quella corda/che ciò che scocca drizza in segno lieto». Il primo Cielo che Dante vede è quello della Luna, quel pianeta che è ricoperto di macchie «che in Terra ci fanno favoleggiare di Caino». Le macchie, spiega Beatrice, non sono dovute a variazioni di densità. Quasi per un intero canto Beatrice cerca di trarre Dante fuori dall’errore in cui è caduto, in quanto mortale. Sappiamo bene che le ragioni addotte da Beatrice per spiegare l’origine della macchie lunari non hanno alcun carattere scientifico.
     Interessante è notare come duecento anni più tardi, un grande estimatore di Dante, ne riprenda il viaggio sulla Luna e parli delle macchie lunari all’interno del suo capolavoro l’Orlando furioso. Il grande paladino Orlando, che nella tradizione combatteva per l’ideale cristiano e per il suo signore, ora impazzisce per amore quando scopre che la donna che lui ama si è sposata con Medoro. Una degradazione parodistica e grottesca del cavaliere è quella descritta nella pazzia di Orlando, proprio al centro del poema (canti XXIII-XXIV), quando il paladino diventa prima fante, poi si priva delle armi e va per le campagne sradicando querce e uccidendo cristiani. La parodia del poema cavalleresco è indice chiaro della perdita di fiducia nei valori medioevali. In Etiopia il re Senapo, colpito da una maledizione divina, ha perso la vista ed è perseguitato dalle Arpie di virgiliana memoria. La maledizione celeste durerà fino all’arrivo di un cavaliere su un cavallo alato. Il sopraggiungere di Astolfo sull’Ippogrifo è salutato da tutti come  il compimento della profezia. Dopo aver cacciato le Arpie nell’Inferno, Astolfo sarà portato dall’Ippogrifo sulla montagna del Paradiso terrestre, ove sarà investito da san Giovanni Evangelista della missione di recarsi sulla Luna per recuperare il senno di Orlando. Ancora chiara è l’allusione al Paradiso di Dante, a quel canto diciassettesimo in cui il poeta è investito dal trisavolo Cacciaguida del ruolo di raccontare tutto quanto ha visto nel suo viaggio. Se nel capolavoro dantesco la Luna costituisce il primo Cielo in cui il poeta vede le anime dei santi, qui invece Astolfo vede tutto ciò che l’uomo perde sulla Terra, un modo che Ariosto utilizza da un lato per demistificare il comportamento umano, per mostrare la vanità delle illusioni, dei piaceri, delle ricchezze e dall’altro per mostrare come non vi sia un Oltremondo, ma solo la dimensione mondana della vita. Così Astolfo descrive la Luna: «quel paese appresso era sì grande,/il quale a un picciol tondo rassomiglia/a noi che lo miriam da queste bande;/e ch'aguzzar conviengli ambe le ciglia,/ s'indi la terra e 'l mar ch'intorno spande,/discerner vuol; che non avendo luce,/ l'imagin lor poco alta si conduce.// Altri fiumi, altri laghi, altre campagne/ sono là su, che non son qui tra noi;/ altri piani, altre valli, altre montagne,/ c'han le cittadi, hanno i castelli suoi,/ con case de le quai mai le più magne/ non vide il paladin prima né poi:/ e vi sono ample e solitarie selve,/ ove le ninfe ognor cacciano belve». Lì sulla Luna, dove finisce tutto quanto l’uomo perde sulla Terra, si trova la maggior parte del tempo che l’uomo spreca dietro a beni futili, si trovano anche la fama, le ricchezze, i sospiri degli amanti, il tempo sprecato. Sulla Luna si conserva dentro ampolle il senno di coloro che l’hanno perduto parzialmente o integralmente. Una volta recuperato il senno, Orlando sarà uno degli artefici della vittoria dei cristiani contro i musulmani nel duello di Lampedusa. Il saraceno Rodomonte dalla forza bruta sfiderà a duello il cristiano Ruggero e troverà la morte nell’ultimo canto (XXXXVI).
Se Ariosto riprende spesso la Commedia  di Dante nel Furioso, Calvino a sua volta ama il capolavoro ariostesco  come dimostra l’opera Italo Calvino racconta l’Orlando furioso. Calvino (1923-1985) è uno degli scrittori italiani del Novecento più letti nelle scuole e più venduti nelle librerie. La sua sterminata produzione è prova di una vena di grande affabulatore. Fin da piccolo Calvino «è stato affascinato da tutto ciò che lo faceva assistere a una storia: libri illustrati, film, racconti. E presto si è accinto a raccontare delle storie a se stesso e ha provato il desiderio di comunicarle agli altri» (Jean Starobinski). 
In Calvino vivo è anche l’interesse per lo sperimentalismo. Nella narrazione, lo scrittore risente dei dibattiti aperti negli anni Cinquanta e Sessanta (La speculazione edilizia e La nuvola di smog) oltre che delle suggestioni dello strutturalismo e della semiologia (Il castello dei destini incrociati) e del fascino delle scienze (Le cosmicomiche, Ti con zero, Palomar). Così il romanziere è uno dei primi ad affrontare il tema dell’esplorazione dello spazio e della Luna. Le cosmicomiche risalgono al 1965, qualche anno prima dell’atterraggio dell’uomo sulla Luna. Tra i tanti racconti della raccolta merita una particolare menzione «La distanza della Luna». Il narratore Qfwfq affronta la teoria per cui la Luna si sarebbe allontanata dalla Terra: «Una volta, secondo Sir George H. Darwin, la Luna era molto vicina alla Terra. Furono le maree che a poco a poco la spinsero lontano: le maree che lei Luna provoca nelle acque terrestri e in cui la Terra perde lentamente energia». Quando la Luna passava ancora vicino alla Terra, era possibile salirvi con una scala e prendervi il latte lunare. Il narratore racconta le ragioni per cui la Luna si è allontanata dalla Terra. Da allora si può guardare solo con nostalgia quel luogo, che è rimasto nell’immaginario collettivo il simbolo dei desideri e delle aspirazioni umani.