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LEGGE DI BILANCIO

Manovra: qualcosa di buono e tante discussioni inutili

Un passo positivo è il reddito di inclusione, allarmante è invece la discussione voluta dalla Cgil sulla questione dell'età pensionabile. Ma soprattutto non si affrontano i veri e grandi problemi, come il debito pubblico, l’alta pressione fiscale e la giungla normativa.

Economia 02_12_2017
Gentiloni con Susanna Camusso

E’ una politica in chiaro assetto preelettorale quella che ha affrontato le scadenze di fine d’anno con i provvedimenti della legge di bilancio e i vari decreti collegati. Una politica che si è fermata per settimane a discutere di temi marginali e che sembra aver rinunciato ad affrontare con chiarezza e coraggio i veri nodi che frenano la crescita del Paese.

Ma iniziamo da quei pochi interventi positivi che sono stati attuati nelle ultime settimane. Innanzitutto il finanziamento del Reddito di inclusione (Rei): 300 milioni destinati a dare un contributo mensile alle famiglie a basso reddito favorendo nel contempo il reinserimento nel mondo del lavoro del beneficiario, attraverso un progetto personalizzato di inclusione sociale e lavorativa. Dovranno essere i Comuni a vagliare le domande, a promuovere le iniziative di formazione e ricerca di lavoro, a controllarne la corretta applicazione. Si tratta di una misura concreta, volta ad affrontare il problema della povertà e dell’emarginazione, una misura che unisce per la prima volta alla concessione di un contributo finanziario anche la volontà di attuare una politica attiva capace di tener conto delle caratteristiche e delle potenzialità delle persone.

Certo, il finanziamento è limitato e la messa in atto appare complessa in un momento in cui i Comuni non hanno grandi mezzi a disposizione. Ma è comunque importante iniziare una strada cercando di fare i conti anche con le compatibilità finanziarie e la sostenibilità del bilancio.

Proprio sullo sfondo di questi ultimi due punti (compatibilità e sostenibilità) si è tuttavia consumato nelle ultime settimane il triste spettacolo di un conflitto tra un sindacato importante, come la Cgil, e il Governo sul tema dell’innalzamento dell’età pensionabile.

In breve nell’ultima riforma delle pensioni era stato previsto che ogni tre anni l’età legale di pensionamento sarebbe stata adeguata con un atto amministrativo sulla base dei dati elaborati dall’Istat sulla speranza di vita. L’obiettivo era due volte corretto. Da una parte per mantenere in equilibrio la spesa pensionistica tenendo conto delle dinamiche demografiche dato che non solo si vive più a lungo, ma anche in migliori condizioni di salute e di capacità lavorativa. Dall’altra per evitare che una scelta di questo tipo fosse periodicamente soggetta alle decisioni della politica, inevitabilmente legate alla ricerca del consenso. Ebbene alla prima occasione questi due sani obiettivi sono stati rimessi in discussione con la leader della Cgil, Susanna Camusso, che è arrivata a sostenere che l’equità non doveva tener conto della sostenibilità finanziaria. Come se i conti alla fine non dovesse comunque pagarli qualcuno.

Alla fine il Governo si è impegnato ad individuare alcune categorie di lavoratori impegnati in occupazioni gravose da esentare dall’aumento dell’età pensionabile. Una soluzione positiva anche se non bisogna dimenticare che l’età media di pensionamento è comunque molto più bassa dell’età “legale” e si colloca tra i 62 e i 63 anni grazie alle pensioni di anzianità maturate dopo poco più di quarant’anni di contribuzione.

Il problema di fondo è quello di un sindacato che cerca solo a parole di difendere le possibilità di lavoro dei giovani mentre dedica le sue attenzioni ai pensionati che peraltro costituiscono ormai la maggioranza dei suoi tesserati.

Un’ultima annotazione sui provvedimenti di fine d’anno e in particolare sulle discussioni altrettanto ampie quanto inutili sull’obbligo per le imprese telefoniche, pay tv e internet di fatturare i loro servizi ogni mese e non ogni 28 giorni, cioè ogni quattro settimane, come avevano iniziato a fare. La logica del mercato vorrebbe che le regole che lo Stato deve imporre riguardassero da una parte la trasparenza e dall’altra la concorrenza. Non è tanto importante ogni quanto tempo si paga un servizio, ma se le tariffe sono chiare e se gli operatori sono liberi di entrare sul mercato e di proporre al meglio i loro servizi. Abbiamo invece uno Stato che cura le apparenze in un settore dove, bisogna riconoscerlo, si sono comunque fatti notevoli passi avanti: basti pensare alla portabilità del numero che permette di cambiare facilmente gestore telefonico.

Quindi misure positive, come il reddito di inclusione, discussioni allarmanti come quella sulle pensioni, provvedimenti inutili come l’obbligo di fatture mensili per la telefonia. L’immagine di un Paese che fa un passo avanti, uno indietro e si appassiona di cose superflue: forse perché i veri e grandi problemi, come il debito pubblico, l’alta pressione fiscale e la giungla normativa non sono certo facili da affrontare. E richiederebbero interventi ben poco popolari.