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"MARE SICURO"

Migrazioni, effetto collaterale delle Primavere

Parte la missione umanitaria "mare sicuro" per evitare altre tragedie delle carrette del mare nel Mediterraneo. Ma è solo, appunto, una goccia nel mare. Il problema è nei punti di imbarco, non in quelli di approdo.

Esteri 15_10_2013
Migranti

Decolla in tempi record la missione militare-umanitaria “Mare sicuro” decisa dal governo italiano allo scopo di evitare altri naufragi di imbarcazioni che attraversano il Mediterraneo cariche di emigranti dall’Africa e dal Medio Oriente diretti in Europa. Il Ministro della difesa Mario Mauro insieme allo stato maggiore della difesa sta mettendo a punto i dettagli dell’operazione che – spiega il Ministro – impegnerà la marina italiana fino «a triplicare la nostra presenza, in termini di uomini e mezzi, nell’area sud del Mediterraneo».

La decisione è stata presa in considerazione del fatto che Libia e Tunisia, pur dotate di mezzi, in parte regalati proprio dall’Italia tra il 2009 e il 2012, non svolgono le necessarie attività di pattugliamento e contrasto dell’immigrazione clandestina.

La Tunisia è da mesi paralizzata da uno stallo politico che, nella migliore delle prospettive, si risolverà non prima di sei mesi, se e quando verranno indette nuove elezioni, per svolgere le quali, però, occorre che prima l’Assemblea Costituente approvi una nuova legge elettorale e una nuova costituzione. Ennahda, il partito islamista vincitore delle elezioni nel 2011, ma ormai fortemente indebolito da conflitti interni, dall’emergere di gruppi radicali e violenti autori di gravi attentati e dal malcontento crescente per la critica situazione economica del paese, ha annunciato il 30 settembre le prossime dimissioni del governo e l’imminente costituzione di un esecutivo di unità nazionale.

Quanto alla Libia, le previsioni più pessimistiche formulate all’inizio della guerra contro Muhammar Gheddafi conclusasi due anni fa, il 20 ottobre 2011, con l’uccisione del colonnello, si sono avverate. Il paese versa in una situazione di totale instabilità, frammentato e ingovernabile, come ha ben dimostrato la vicenda del sequestro-arresto il 10 ottobre del primo ministro Ali Zeidan. La produzione petrolifera su cui si basa l’economia libica ha subito forti contrazioni, specie a partire da agosto quando, per effetto di scioperi e disordini, è scesa fino a soli 150.000 barili al giorno, un decimo rispetto a prima della guerra, per risalire a settembre, ma raggiungendo solo da un terzo a metà della capacità estrattiva totale. Nel 2008 il colonnello Gheddafi aveva firmato con il governo italiano un Trattato d’amicizia, partenariato e cooperazione che prevedeva impegni precisi da parte di Tripoli per combattere la tratta di esseri umani lungo le coste libiche. Adesso le milizie libiche spartiscono con i trafficanti i proventi della tratta.

Dunque il flusso incontrollato di emigranti e le recenti tragedie vanno annoverati tra gli effetti collaterali della “primavera araba” e della guerra di Libia: per quanto detto e anche per altre ragioni.

Libia, Tunisia ed Egitto erano infatti meta di milioni di emigranti provenienti dall’Africa sub sahariana. Da sola la Libia dava lavoro ad almeno 1,5 milioni di africani. Gran parte degli immigrati sono fuggiti da Tunisia, Egitto e Libia durante i disordini, temendo per la vita, oppure hanno perso il lavoro a causa della successiva crisi economica. Con il loro rientro in patria, è venuto meno l’importante flusso di denaro derivante dalle loro rimesse. Gli emigranti rimpatriati per di più sono andati ad aggiungersi alla massa di disoccupati senza prospettive che in tutti i paesi africani costituiscono uno dei maggiori problemi sia in termini economici che di sicurezza: una percentuale di popolazione sempre a due cifre, fino a sfiorare addirittura il 70%, come è successo in Zimbabwe.

Si stima che ogni anno circa altri 20 milioni di giovani africani si affaccino sul mercato del lavoro e ne vengano in gran parte respinti. Ad essi ora va aggiunto il numero crescente di egiziani e di tunisini in difficoltà; persino di libici, mentre, prima della caduta di Gheddafi, il loro paese, con un Pil pro capite di quasi 17.000 dollari, si collocava tra gli stati ad alto sviluppo, 53° nell’Indice di Sviluppo Umano 2010 dello United Nation Development Program. Dalla sola Tunisia, subito dopo la fine del regime di Ben Ali, 25.000 emigranti si sono imbarcati alla volta dell’Europa in cerca di lavoro o per ricongiungersi a parenti e amici già emigrati.

I dati appena pubblicati a Johannesburg, relativi alla povertà in Africa, così come viene percepita dalla popolazione, fanno presagire il peggio. Secondo un sondaggio condotto in 34 paesi, per un totale di 50.000 interviste, nell’Africa sub-sahariana una persona su cinque dichiara di non aver da mangiare, di non disporre di acqua potabile e di non avere accesso a servizi sanitari “di frequente”; una su due patisce le stesse privazioni “occasionalmente”. Di miglioramenti hanno parlato soltanto gli intervistati in Mozambico (48%) e in Sierra Leone (47%). Il 77% degli egiziani e il 69% dei tunisini giudicano peggiorata la loro situazione economica.

Non meno negativo, infine, e causa di sfollati, profughi ed emigranti, è l’effetto destabilizzante dovuto al rafforzamento di gruppi armati criminali, antigovernativi, terroristici in seguito alla spartizione dell’arsenale libico che, come ha scritto il quotidiano francese Le Monde, “ha fornito abbastanza armi da armare l’intero continente africano”.

Nel 2011 l’allora presidente del Mali, Amadou Toumani Touré, aveva profetizzato: “la primavera araba porterà a un’estate di follia nella regione”. A lui è costata cara: il 22 marzo del 2012 un colpo di stato militare lo ha deposto.