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CONTINENTE NERO

Mutilazioni genitali, destino delle bambine africane

Ci sono 200 milioni di donne al mondo che vivono patendo le conseguenze dell'intervento di mutilazione genitale femminile. Pratica comune in almeno 27 paesi africani, riguarda la quasi totalità delle minorenni in paesi come Egitto, Somalia e Mali. Nonostante la sensibilizzazione internazionale, viene praticata anche in Europa.

Esteri 02_02_2018
Un rasoio, solitamente si usa questo per praticare le Mgf

200 milioni di donne al mondo vivono patendo le conseguenze di un intervento di mutilazione genitale subito nell’infanzia. Ogni anno circa tre milioni di bambine rischiano di esservi sottoposte perchè così prescrivono le tradizioni rispettate dalle loro famiglie. Sono quasi tutte bambine nate in Africa e, in numero nettamente minore, in alcuni paesi asiatici (soprattutto in Medio Oriente e Indonesia).

Ormai tutti in Italia sanno in che cosa consistono le mutilazioni genitali femminili, Mgf. I termini per indicare quelle più comuni – escissione e infibulazione – sono diventati famigliari perchè chi pratica questa istituzione per lo più non ci rinuncia anche se emigra e vive stabilmente lontano da casa. In Italia si erano talmente diffuse alla fine del secolo scorso, eseguite di nascosto in ambulatori e studi medici oppure approfittando di una vacanza estiva nel paese di origine, da rendere necessaria una legge per contrastarle: la “legge Consolo” – “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile” – adottata nel 2006.

Ci sono paesi come la Somalia, l’Egitto, il Mali in cui la percentuale di donne mutilate rasenta il 100%. In altri, come il Kenya, l’Etiopia, il Gambia, l’istituzione è meno diffusa perchè è presente soltanto in alcune etnie. Di fatto le Mgf sono monitorate in 27 stati africani e in Yemen, mentre altrove si sa che si effettuano, ma mancano rilevazioni attendibili. Anche in Europa, dove ormai l’istituzione è radicata, i dati sono parziali, poco aggiornati. Nel 2011 si riteneva che fossero presenti nel continente circa 550.000 donne mutilate. Poco si sapeva però sul numero di interventi eseguiti ogni anno, pur ipotizzando che fossero molte migliaia. Adesso si stima che ogni anno le bambine a rischio siano 180.000.

Negli Stati Uniti le Mgf potrebbero essere inflitte a oltre 500.000 bambine nei prossimi anni. Lo sostiene la fondazione Usa AHA, creata da Ayan Hirsi Ali, la donna somala condannata a morte da una fatwa per aver scritto il testo di “Submission”, il cortometraggio sulla condizione delle donne islamiche costato la vita nel 2004 all’autore, Theo Van Gogh.

La pressione internazionale ha indotto molti governi africani a proibire le Mgf, ma con risultati deludenti. Quasi tutti i leader africani hanno altro a cui pensare. La tutela dei diritti umani di solito non è in agenda, tanto più se si tratta, come nel caso delle Mgf, di andare contro la volontà della maggior parte dei cittadini, determinati a praticarle soprattutto se si associano a due altre istituzioni: i matrimoni precoci, combinati, e il prezzo della sposa, l’istituzione che fa del matrimonio un contratto di acquisto, stipulato dopo che le parti – il pretendente e il padre della sposa – hanno discusso e pattuito l’importo dovuto alla famiglia che cede la propria figlia. Le Mgf servono in questo contesto a controllare la vita sessuale delle donne per garantire che generino figli solo per chi acquisisce diritti su di loro con il matrimonio. Nessuno è disposto a sposare una donna non mutilata. Per il buon nome della famiglia, per essere sicure che andranno spose e frutteranno denaro: perciò le mamme fanno mutilare le loro figlie.

L’abisso di sofferenza, solitudine e abbandono in cui vivono decine di milioni di bambine, adolescenti e donne è inimmaginabile: tradite e violate dai famigliari, dalle persone più care, nell’indifferenza di chi – uomini e donne – sa, assiste, collabora e approfitta della loro soggezione.

Un fatto vale a far luce su quell’abisso. Ellen Johnson Sirleaf, prima donna africana eletta capo di stato, nel 2006 si è candidata alla presidenza della Liberia e ha vinto, nell’entusiasmo di migliaia di donne che per lei erano andate di porta in porta, in tutto il paese, chiedendo di votarla, fiduciose che con lei tutto potesse cambiare. Ha guidato il paese per 12 anni. Il 22 gennaio ha passato le consegne al nuovo capo dello stato, George Weah, vincitore delle elezioni a cui lei non ha potuto partecipare avendo già ricoperto due mandati. Le agenzie di stampa quel giorno hanno battuto la notizia che, il 19 gennaio, uno dei suoi ultimi atti da presidente è stata la firma di un decreto che vieta di eseguire Mgf sulle minorenni.

“Signora Presidente – ha commentato il Ministro liberiano del Gender, Julia Duncan Cassell – questo sarà il vostro lascito al paese nel giorno in cui cedete la carica”.

Ma invece avrebbe potuto essere non l’ultimo, bensì il suo primo atto presidenziale, 12 anni fa, all’indomani dell’insediamento. Nel 2011, con altre due donne, Ellen Johnson Sirleaf ha vinto il premio Nobel per la pace, conferito “per la loro battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e del loro diritto alla piena partecipazione nell’opera di costruzione della pace”. Leyman Gbowee, la pacifista liberiana insignita del premio Nobel insieme a lei, nell’apprendere la notizia del decreto firmato, si è fatta portavoce delle tante persone deluse, per 12 anni in attesa che una delle donne più potenti del continente africano annunciasse una agenda per le donne che invece non è mai stata formulata.

Il divieto delle Mgf pare fosse stato inserito in una legge contro la violenza domestica. Però il senato l’aveva stralciato, per timore che urtasse la cultura e le tradizioni del paese.