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IL VOTO SUL GAS

No Triv, un referendum tutt'altro che scontato

Il comitato No Triv spinge a votare Sì al referendum del 17 aprile, per abbandonare gli impianti di estrazione vicini alle coste. In teoria si tratta di una battaglia dettata dal buon senso, ma a ben vedere nasconde molte più incognite di quanto non si pensi. Ecco quel che c'è in ballo, punto per punto.

Creato 17_03_2016
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Entra nel vivo la mobilitazione del comitato No Triv. Non c’è social network che non sia invaso dalla campagna referendaria, quasi sempre a favore del Sì (per uno dei paradossi referendari, la campagna dei No Triv è quella del Sì). A volte si tratta di una campagna anche molto greve, come il meme digitale “Trivella tua sorella”, con immagine esplicita annessa, poi sospeso l'altro ieri con mille scuse dall’agenzia Be Shaped.

Il 17 aprile prossimo si voterà al referendum sulle trivelle: ai cittadini verrà chiesto se vorranno che vengano fermati i 21 giacimenti in attività nelle acque italiane, entro le 12 miglia dalla costa, quando saranno scadute le concessioni. In pratica, per motivi ambientali, si vuole fermare lo sfruttamento delle riserve di gas sui fondali marittimi italiani giudicati troppo vicini alle coste e dunque dannosi per l’ambiente e per la salute. Nel caso vincesse il Sì al referendum, nell’arco di 5, o 10 anni al massimo, quando scadranno le ultime concessioni, queste non verranno rinnovate. Anche se ci fosse ancora del gas da estrarre, l’Eni dovrebbe lasciarlo lì dove è, sotto il fondale marittimo.

Il quesito sembra semplice e l’esito pare scontato. Sembra semplice, ma non lo è, perché l’informazione di questi ultimi mesi ha creato un caos difficile da districare. Di fatto sono passate nell’opinione pubblica idee completamente diverse sul senso del voto. Si parla di petrolio, ma i giacimenti in questione sono soprattutto di gas. Si dice “niente nuove trivelle”, ma il quesito riguarda quelle vecchie già funzionanti da un trentennio a questa parte. E nemmeno tutte, perché su 106 impianti in acque italiane, solo 21 saranno condizionati dal voto, quelli, appunto, entro le 12 miglia marittime. Infine si discute molto su possibili scempi ambientali che non ci sono, né ci saranno in futuro: nessuno vuole costruire impianti petroliferi sulle isole Tremiti, al massimo era in discussione l’esplorazione dei fondali, ma non se ne fa più nulla perché la compagnia interessata vi ha rinunciato.

La sproporzione di forze fra Sì e No è notevole, perché il comitato della campagna per il Sì è una squadra bipartisan, agguerrita, sostenuta dalle giunte di ben dieci regioni marittime: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. A cui vanno aggiunti le potenti associazioni ambientaliste Greenpeace e WWF, che già stanno usando la loro potenza di fuoco mediatica a favore del Sì. Il comitato per il No, al contrario, che si è battezzato “Ottimisti e razionali” è decisamente meno visibile sia nei media che nei social network. L’unico vero pensiero dei No Triv è la data del referendum, che cadrà a meno di un mese dalle prossime elezioni amministrative. Quindi i No Triv corrono il rischio che gli italiani non vadano a votare per due volte di fila.

La battaglia dei No Triv parrebbe dettata dal semplice buon senso. A nessuno piace avere un impianto di estrazione del gas davanti alla finestra della propria casa al mare. Ma è un buon senso solo apparente. Lo dimostra il caso dell’Emilia Romagna, una delle regioni marittime che non ha aderito al comitato dei No Triv. Ospita due degli impianti in discussione, ma non ha mai subito danni al turismo, che è cresciuto di pari passo con l’industria estrattiva. In compenso, la chiusura degli impianti metterebbe a rischio migliaia di posti di lavoro nei prossimi anni: nel settore sono impiegate 7mila persone nella sola provincia di Ravenna. I No Triv parlano di possibili disastri che non ci sono. L’Istituto Superiore della Protezione Ambientale ha dimostrato che non si registrano dati sull’inquinamento particolarmente preoccupanti (nonostante Greenpeace faccia campagna soprattutto su questo punto), ma soprattutto che non esiste alcun terremoto artificiale causato dall’estrazione del gas. Non c’è mai stato, nella nostra storia, un solo sisma provocato dalle trivelle, la stessa conformazione del fondale marittimo non lo rende possibile: sedimenti, sabbie e argille non si rompono, ma si deformano plasticamente a seguito dell’estrazione. I promotori del referendum sono contrari all’inquinamento e promuovono un’energia pulita. Per questo parlano soprattutto di “petrolio” e genericamente di “combustibili fossili”, ma l’oggetto del contendere, in questo caso, è il gas. E il gas metano è, a tutti gli effetti, energia pulita.

Se si rinunciasse all’estrazione al largo delle coste, l’Italia dovrebbe compensare con l’importazione di maggiori quantità di gas dall’estero, dall’Algeria soprattutto, ma anche da aree di crisi come la Libia alle prese con la sua guerra civile o dalla Russia, ma attraverso l’Ucraina in guerra. Cambierebbe poco, a dire il vero, negli equilibri generali del nostro paese, perché il gas estratto in Italia copre appena l’11,5% del fabbisogno nazionale. Ma di questo 11,5%, il 7,8% è estratto in mare. Impedire il rinnovo delle concessioni andrebbe ad incidere su quest’ultima percentuale, in una misura che né i comitati del Sì, né quelli del No hanno finora pubblicato.

In generale, però, ad essere praticamente impercorribile è il progetto di fondo dei No Triv: sostituire i combustibili fossili con fonti rinnovabili. La battaglia contro le trivelle appare solo un primo passo, ma poi ne seguiranno tante altre, fino alla rinuncia completa di gas e petrolio. Ciò vuol solo dire: rinunciare a una fonte certa per una incerta. Le rinnovabili sono ancora una strada in salita, tutta da percorrere, che non sta sul mercato senza ingenti incentivi statali. Né l’eolico, né il fotovoltaico hanno dimostrato di poter soddisfare il fabbisogno energetico tanto quanto le fonti tradizionali che usano combustibili fossili (e meno ancora rispetto a quel che potrebbe produrre il nucleare). L’eolico, poi, richiede campi di enormi pale eoliche, che sono un pugno nell’occhio tanto quanto le trivelle al largo delle proprie coste. Corriamo dunque il rischio di recidiva: una volta completato il passaggio dalla vecchia alla nuova energia, si potrebbe tornare al voto per dire “No Pale”.