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UTERO IN AFFITTO

Nonna surrogata partorisce: distrutto il senso della maternità

Un bimbo è stato creato in laboratorio e poi trasferito nel grembo della mamma-nonna. È vero l’esigenza di essere madri è viscerale ma chi la vive nella sua interezza non riuscirà mai a giustificare l'utero in affitto. Il problema non è lo sfruttamento economico ma il fatto che il significato della maternità non è nel ricevere soddisfazione, ma nel donarsi a costo di soffrire.

Editoriali 16_02_2018

Nato il 30 dicembre in Arkansas dall’utero di sua nonna, Patty Resecker, crescendo scoprirà che la mamma di suo padre, Kross Allen Jones, è la sua “seconda mamma”. E magari guarderà quelle foto della nonna incinta con un cartello in mano che si riferisce a lui come “la loro pagnotta” e di sua madre, Kayla Jones, con un altro cartello che indica il pancione così: “Il suo forno”. Scoprendo in questo modo di essere stato creato in laboratorio con due gameti e poi trasferito nel grembo della mamma-nonna nel maggio del 2017, mentre prima di lui un suo fratello, fabbricato sempre in laboratorio e trasferito in grembo senza successo due mesi prima, era morto. Perché morto uno se ne produce un altro, finché il processo di produzione non va a buon fine.

È così che si fanno i bambini nel terzo millennio occidentale a natalità zero. Un millennio in cui i figli si rifiutano come un inciampo o in cui sono talmente pretesi da portare gli esseri umani a sfidare l’ordine del creato fino al punto di dar loro il coraggio di chiamarlo "la forza dell'amore". Confondendo il sentimento violento, frutto di un desiderio ridotto e distorto, con il bene.

Sembrano due posizioni diametralmente opposte quella di chi i figli assolutamente non li vuole o di chi è disposto a fare follie per averli, invece la concezione è la stessa. Una concezione della felicità limitata, perché ridotta a soddisfazione personale. Una concezione della vita borghese dove l’importante è sentirsi bene, al di là delle conseguenze sugli altri esseri umani, fossero anche i propri figli. Come se bastasse la soddisfazione del genitore per far felice il pargolo, mentre si tratta di una proiezione narcisista e menzognera. E come se appunto la felicità dipendesse dal potere che si riesce ad esercitare sulle cose, facendole andare a tutti i costi secondo i propri progetti. Sempre però così meschini e ridotti che anche quando non si ritorcono contro a chi li persegue al di là di ogni limite (che Dio perdona ma la natura no), in fondo in fondo, non riescono mai a bastare davvero all'animo umano. Non a caso, viviamo in una società di gente sazia ma depressa, pur coperta da immagini virtuali di vacui sorrisi e buoni ma fugaci sentimenti. 

Un tempo forse era più difficile illudersi di governare la propria vita, non esistendo una tecnica capace di dare tanto potere di controllo agli uomini. Probabilmente per questo era più semplice capire che la felicità non poteva dipendere totalmente dalla propria autorealizzazione e che quindi era necessario riceverla da un atto gratuito. Non a caso oggi la maternità sembra possibile solo se il figlio è parte del progetto che la donna ha ideato per la sua soddisfazione personale. 

È vero l’esigenza di essere madri è così profonda e viscerale da poter recare un dolore immenso quando non si compie, tanto da spingere la donna ad affrontare percorsi dolorosi pur di realizzarla. Ma proprio per questo, chi vive tale esigenza nella sua interezza non riuscirà mai a giustificare la strumentalizzazione di un bambino. Perché il vero desiderio della maternità non è quello di ricevere, ma di donare se stessi ad un altro. Il profondo bisogno di una donna è quello di accogliere gratuitamente qualcuno di diverso da sé, ossia di lasciarsi riempire e far spazio ad altro per generare. Per questo, la donna che ha questo struggimento o desiderio, magari senza riuscire a realizzarlo, di fronte all’aberrazione della fecondazione assistita o dell’utero in affitto prova disgusto, sapendo che nessun dolore può rendere giustificabile la "fabbricazione" di un figlio. 

E non c’entra nulla lo sfruttamento economico delle donne e dei grembi delle madri surrogate, non è questa la parte peggiore di un sistema che crea i figli in laboratorio. Non è il fattore economico che dovrebbe far imbufalire la Chiesa e chi dice di voler difendere le donne, ma la negazione della natura femminile intrinseca a queste pratiche abominevoli che oscurano il senso della maternità e quindi dell’amore senza calcoli né ritorno.

Perché è falso che “love is love” e che se non c’entrano i soldi, come in quest'ultimo caso di cronaca dove l'utero viene prestato volontariamente, allora non c’è nulla di male. Al contrario, l’amore vero di una madre (che fa tanto assomigliare la donna a Dio) è quello disposto a dar luce ad una creatura che con la sua libertà potrà anche decidere di andare contro di lei o contro se stessa. E quello che pur di generare accetta di poter soffrire.