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Diritti & rovesci

Nozze gay, il trucco della libera circolazione

L'avvocatura generale della Corte di Giustizia UE chiede che la Romania, la quale vieta le "nozze" gay, qualifichi come "coniuge" il partner di una coppia gay chi si è "sposata" all'estero.

Gender Watch 15_01_2018

Relu Adrian Coman, rumeno, e Robert Clabourn Hamilton, cittadino USA, si “sposano” nel 2010 a Bruxelles. Due anni dopo chiedono alle autorità rumene il permesso di soggiorno per Clabourn in base alla direttiva UE sulla libertà di circolazione che permette al coniuge di ricongiungersi con il proprio sposo.

Le autorità rumene hanno negato tale facoltà perché la Romania non riconosce il “matrimonio” gay e quindi Clabourn non può essere considerato “coniuge”. I due allora hanno adito i giudici rumeni i quali hanno passato la palla alla Corte costituzionale la quale a sua volta ha interpellato la Corte di Giustizia europea. L’11 gennaio scorso l’avvocato generale della Corte di Giustizia dell’Ue Melchior Wathelet ha affermato che anche per la Romania il sig. Clabourn deve essere considerato il legittimo sposo del sig. Coman. Infatti l’avvocato generale ha dichiarato che fino a poco tempo fa la giurisprudenza europea assumeva che «la definizione di matrimonio comunemente accolta dagli Stati membri designava un’unione tra due persone di sesso diverso». Ma «alla luce dell’evoluzione della legislazione degli Stati membri dell’Unione nel corso dell’ultimo decennio, questa giurisprudenza non può più essere condivisa».

La direttiva in oggetto, illustra il parere dell’avvocatura generale, non prevede un rinvio ad ogni singolo stato per la determinazione del significato di “coniuge” e dunque questo termine deve essere inteso in modo uniforme. E dato che ormai per molti stati  il termine “coniuge” può riferirsi sia al coniuge omosessuale che a quello eterosessuale, anche la Romania deve concedere al sig. Clabourn il permesso di soggiorno perché “coniuge” a tutti gli effetti, anche se la Romania non riconosce il “matrimonio” omosessuale. Ora la decisione ultima spetta ai giudici della Corte di Giustizia e dunque staremo a vedere.

Il parere dell’avvocatura generale non è condivisibile. Infatti e in prima battuta c’è da appuntare che la direttiva non prevedeva un rinvio ad ogni Stato in merito all’interpretazione del termine “coniuge” per il semplice fatto che, quando quella direttiva fu varata, tutti gli Stati membri riconoscevano un solo tipo di matrimonio, quello eterosessuale. Quindi il significato della parola “coniuge” era univoco per tutti e dunque non c’era bisogno di fare dei distinguo. Oggi, come ha sottolineato l’avvocato generale, non è più così dato che vi sono stati in cui il termine “coniuge” può riguardare i matrimoni etero ed omo ed altri stati in cui questo lemma si può riferire solo al matrimonio eterosessuale. Ora non si vede il motivo per cui debba prevalere il primo significato di carattere estensivo – coniuge di matrimoni etero ed omo – su quello di carattere meno estensivo – coniuge di matrimonio eterosessuale.

A rigor di logica giuridica dovrebbe invece prevalere il secondo significato e così solo lo sposo di un matrimonio eterosessuale avrebbe il diritto di soggiorno in ogni stato UE e il coniuge di un matrimonio omosex potrebbe richiedere il diritto di soggiorno solo in quegli stati che riconoscono le “nozze” gay. Infatti la disciplina normativa sul matrimonio è, per espressa volontà dell’Unione europea, appannaggio dei singoli stati i quali, facendo valere il principio di sovranità nazionale, possono decidere in piena autonomia se legittimare o meno i “matrimoni” tra persone dello stesso sesso. Da ciò discende che sta alla loro libertà accettare la declinazione del significato del termine “coniuge” anche in chiave omosessuale oppure rifiutarla. Imporre dall’esterno, come vorrebbe l’avvocatura generale, la particolare accezione bivalente della parola “coniuge” significherebbe non rispettare la sovranità nazionale ed infatti significherebbe entrare in una contraddizione insanabile: legittimamente lo stato rumeno rifiuterebbe il “matrimonio” omosessuale ma non potrebbe rifiutare di riconoscere legalmente la qualifica di “coniuge omosessuale”.

Ma questa sarebbe ovviamente una decisione inconciliabile dal punto di vista logico perché riconoscere, seppur solo ai fini del permesso di soggiorno, valore legale all’espressione “coniuge omosessuale” comporterebbe riconoscere valore legale al “matrimonio” omosessuale. In breve la sovranità nazionale su questo tema o viene rispettata totalmente oppure, se vengono inserite anche piccole eccezioni, finisce per non essere rispettata in alcun modo. Accettare le conclusioni dell’avvocatura generale significherebbe che la Romania dovrebbe essere obbligata ad accettare un modello familiare e matrimoniale che invece ha espressamente e legittimamente rigettato. La singola eccezione non potrebbe che diventare regola generale.

Se dunque la libertà di soggiorno dipende dal possesso del titolo di coniuge e se sta agli stati decidere in che modo e secondo quali condizioni una persona può fregiarsi di questo titolo, la libertà di soggiorno e quindi di libera circolazione dipenderà, relativamente a questa materia, all’autonoma ed insindacabile decisione di ogni nazione. E perciò il diritto di libera circolazione e di soggiorno non sono diritti assoluti, bensì relativi, ossia sono subordinati al diritto di matrimonio il cui riconoscimento, condizionato al verificarsi di alcuni requisiti come ad esempio la differenza di sesso, è deciso dai singoli ordinamenti giuridici nazionali.

Se il parere dell’avvocatura generale venisse accettato dai giudici della Corte di Giustizia le lobby omosessualiste avrebbero trovato un efficace grimaldello giurisprudenziale per introdurre il “matrimonio” omosex non solo in quegli stati che attualmente riconoscono “solo” le unioni civili – in genere del tutto assimilabili all’istituto matrimoniale – ma anche in quei Paesi - come Bulgaria, Croazia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia e Ungheria – in cui le “nozze” arcobaleno sono addirittura vietate.

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