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CONVERSIONI

Pakistan, la jihad secondo Imran Khan

In una delle province più martoriate del Pakistan riprende l'insegnamento della jihad. Lo ha reitrodotto il partito guidato da Imran Khan, l'ex campione di cricket.

Esteri 05_09_2013
Imran Khan

In Pakistan, nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa, riprende l’insegnamento della jihad, la guerra santa contro gli “infedeli”. La provincia in questione è in una posizione “sensibile”, a dir poco, da un punto di vista strategico. È da sempre uno dei crocevia di guerra, tra l’Afghanistan e il Pakistan. Dopo la cacciata del presidente/dittatore Pervez Musharraf, nel 2008, lo studio della jihad era stato volutamente eliminato dai libri di testo religiosi. Si trattava di una delle misure, educative più ancora che militari, volte a pacificare le regioni al confine con l’Afghanistan, divenute delle vere e proprie retrovie per i Talebani e fucine di nuovi jihadisti.

La reintroduzione di un’educazione radicale e bellicosa è stata voluta fortemente dal nuovo governo locale. Che è costituito dal partito islamico Jamaat-e Islami, ma anche dal Movimento Pakistano per la Giustizia. Guidato da Imran Khan, campione di cricket. Imran Khan vuole lo studio della jihad nei testi di religione? O c’è qualcosa che gli sfugge nel suo stesso partito, nelle sue varie ramificazioni locali?

In Occidente, quando si disputarono le ultime elezioni pakistane, Imran Khan, forte della sua fama di sportivo, a cavallo fra Gran Bretagna e Pakistan, era visto con grandi speranze. Negli ultimi due decenni del secolo scorso è stato il più famoso capitano della nazionale di cricket del Pakistan. È sposato con Jamina Goldsmith, figlia del finanziere Sir James Goldsmith, nonché editorialista del New Statesman, punto di riferimento storico della sinistra britannica. Filantropo e miliardario, a sua volta, Imran Khan è sempre stato molto presente nelle cronache dei tabloid più mondani d’Inghilterra, mai e poi mai lo si potrebbe identificare con i barbuti armati di kalashnikov che combattono contro gli Americani in Afghanistan.

Restando al caso locale, nel Khyber lo studio della jihad, nelle ore di religione, è stato reinserito con lo spirito di chi vuole rettificare un errore del passato. «Ma che tipo di sovranità, libertà e valori islamici sarebbero quelli in cui si rimuovono, dai testi di studio religiosi, la jihad e gli eroi nazionali? La jihad è parte integrante della nostra cultura. Non vi rinunceremo mai» spiega ai microfoni di Radio Free Europe il ministro provinciale dell’Educazione, Shah Farman.

La contro-riforma dell’educazione contrasta lo sforzo di secolarizzazione, che procede almeno dal 2006, iniziato già nell’era Musharraf. Come si spiega che proprio un “occidentale”, come Imran Khan, sia uno dei suoi promotori? Difficile che si tratti di un’iniziativa locale del suo partito. Lo stesso campione di cricket, l’anno scorso, elogiava la jihad dei Talebani. Dopo aver fatto visita, in ospedale, a Malala Yousafzai, la ragazzina quasi ammazzata in un attentato dei miliziani fondamentalisti islamici (e per questo divenuta un esempio mondiale di resistenza al fanatismo), Imran Khan aveva colto l’occasione per dichiarare: «È evidente che chiunque difenda la sua libertà, sta combattendo una guerra santa. Il popolo dell’Afghanistan che lotta contro un’occupazione straniera, sta combattendo una guerra santa». Non ha dimostrato molto tatto nei confronti della Yousafzai, che di questa “guerra santa” è vittima. E non ha neppure mostrato alcuna sensibilità diplomatica nei confronti del governo afgano. Che puntualmente aveva protestato, definendo “non islamiche” le parole del politico e sportivo pakistano. Ma soprattutto, quelle erano parole che dimostravano in pieno quale fosse il reale atteggiamento di quest’uomo “occidentale” nei confronti della guerra santa contro l’Occidente.

In un articolo da lui scritto e firmato del 1998 (3 anni prima dell’11 settembre e della guerra afgana), “L’islam selettivo”, aveva spiegato tutte le ragioni della sua ri-conversione dal secolarismo alla pratica religiosa. «Vi furono una serie di eventi, negli anni ’80, che mi spinsero di nuovo verso Dio», spiega. Uno di questi segni, che considera fondamentale è: la fatwa contro Salman Rushdie. Lo scrittore indiano, condannato a morte da Khomeini e tuttora braccato dagli jihadisti, per aver scritto “I versetti satanici”, ottenne la solidarietà della classe intellettuale occidentale. Ebbene, questa solidarietà spinse Imran Khan a pensare: «Il mondo occidentale era intriso di pregiudizio anti-islamico, come risposta alla reazione musulmana a quel libro. Noi (musulmani, ndr) avevamo solo due scelte: combattere o andarcene. Dal momento in cui sentivo che gli attacchi all’islam erano ingiusti, ho deciso di combattere». E non dalla parte di uno scrittore condannato a morte per le sue idee.

Il lungo articolo di Imran Khan trasuda di senso di inferiorità nei confronti di (e voglia di emancipazione da) un Occidente visto come dominatore più che come sua terra adottiva. A partire dalle prime righe dell’articolo: «La mia generazione è cresciuta in un periodo in cui la presa del colonialismo era ai massimi livelli. La generazione prima della mia era ridotta in schiavitù ed era affetta da un grave complesso di inferiorità nei confronti degli inglesi. La scuola che ho frequentato era simile a tutte le altre istituzioni d’élite del Pakistan: benché fosse un Paese già indipendente, esse erano, e sono tuttora, la fotocopia degli istituti britannici. Ho studiato Shakespeare, il che era ottimo, ma non Allama Iqbal». Anche l’Imran Khan adulto e ormai ai vertici della sua fama di campione di cricket scrive commenti di fuoco contro un Occidente divenuto secolare e anti-religioso. Ne attribuisce la colpa alla religione cristiana: «La storia dell’Europa è contraddistinta da un rapporto terribile con la religione. Gli orrori commessi dagli uomini di Chiesa nel nome di Dio, durante il periodo dell’Inquisizione, ha lasciato un segno profondo nelle menti degli occidentali».

La sua risposta è la riscoperta dell’islam: «Sono diventato un uomo migliore. Invece di essere egocentrico e di vivere per me stesso, io sento che i doni che mi ha dato Dio debbano essere compensati con il mio aiuto per i meno privilegiati. Seguendo i dettami fondamentali dell’islam, invece di trasformarmi in un fanatico armato di kalashnikov, sono diventato più tollerante, un uomo che ha ricevuto il dono di provare compassione per i meno fortunati». Una compassione e una presa di distanza dal fanatismo che, però, al momento “buono”, si traducono in insegnamento della jihad nelle ore di religione. Perché combattere contro questo straniero secolare, “abbrutito” dall’Inquisizione, è evidentemente “guerra santa”, come spiegava nell’intervista rilasciata l’anno scorso.

Il percorso di Imran Khan è significativo di questa generazione di musulmani (e dei loro interi Paesi) cresciuti all’ombra del colonialismo, falliti nel loro tentativo di occidentalizzazione e tornati ad abbracciare l’islam quale guida nella vita e nella politica. Ma da dove nasce questa ri-islamizzazione se non dall’Occidente stesso? Da dove arrivano i pregiudizi laicisti anti-cristiani, di cui scrive lo stesso Imran Khan, se non dalle scuole e dalle università occidentali?