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IL BELLO DELLA LITURGIA

Pietro e Paolo, il dramma nel progetto di Salvezza

I santi Pietro e Paolo nella celeberrima cappella Cerasi della chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma. Caravaggio riproduce il martirio di Cefa e dell’apostolo delle genti il maestro lombardo immaginò il momento della conversione. Di entrambi i santi, dunque, volle cogliere il momento del loro più drammatico “sì” a Cristo.

Cultura 30_06_2018

Michelangelo Merisi (detto il Caravaggio), Crocefissione di San Pietro e Conversione di Paolo

  Roma – Santa Maria del Popolo

Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. (Dalla seconda lettera di San Paolo Apostolo a Timoteo)

E’ intitolata all’Assunta ma anche ai SS Pietro e Paolo la celeberrima cappella Cerasi della chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma. E’ la prima sulla sinistra dell’altare maggiore ed è passata alla storia per essere stata, per quanto riguarda la pittura (ma non solo!), tra i  cantieri più vivaci e influenti del primo seicento romano. Del resto vi lavorarono contemporaneamente due giganti: l’uno, il bolognese Annibale Carracci, un po’ più anziano del secondo, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Al primo spetta la realizzazione della pala d’altare, con l’Assunta. Al secondo le tele delle pareti laterali che hanno come protagonisti i due patroni della Città Eterna: Pietro da una parte, Paolo dall’altra. E se del successore di Cristo Caravaggio riprodusse il martirio, dell’apostolo delle genti il maestro lombardo immaginò il momento della conversione.  Di entrambi i santi, dunque, volle cogliere il momento del loro più drammatico “sì” a Cristo.

La buona battaglia di cui Paolo scrive a Timoteo, suo discepolo e compagno di viaggio, è stata esperienza anche di Pietro. Caravaggio ne racconta il momento finale.  In un’inquadratura ardita, ristretta al punto che la scena sembra debordare dai confini della tela – lasciando alla nostra immaginazione, dunque, completarla - sono disposti quattro personaggi che occupano tutto lo spazio. La luce li investe, facendoli emergere dal buio e plasmandone i volumi. 

Pietro è già issato sulla croce, com’è noto capovolta. Commuove lo sguardo di quest’uomo morente che, ormai anziano, consapevole del destino cui sta andando incontro, compie un estremo sforzo per torcere il busto e volgere lo sguardo verso la Vergine Assunta sull’altare della cappella, la bocca socchiusa in un’ultima preghiera. Non c’è nulla di aulico in questa rappresentazione: tutto è dove deve essere e va dove deve andare. Tanto che anche i carnefici di Cefa non appaiono come crudeli aguzzini ma semplici operai, come ebbe a dire il Longhi, che compiono solo il loro dovere.

Anche qui, come sempre accade, Caravaggio non rinuncia alla sua peculiare cifra stilistica che impregna di realismo l’immagine. Si notino, ad esempio, le venature del legno della croce, il piede sporco dell’uomo inginocchiato in primo piano di cui il pittore, confermando il suo spirito irriverente, pone in evidenza il posteriore.

Di Paolo, invece, sulla parete opposta, Caravaggio racconta il paradosso della caduta che coincide con l’inizio della sua redenzione. La drammaticità dell’istante è sottolineata dall’inversione del punto di vista che si concentra sul corpo potente del cavallo, la cui sola posizione è contraria a qualsiasi canone estetico allora codificato, mentre il santo è lasciato a terra, le braccia spalancate verso l’alto. Coglie l’attimo il Caravaggio e, ancora una volta, la luce, il buio, le ombre accentuano la sensazione di miracolo e di mistero.

A noi fedeli e spettatori non resta dunque che intonare l’inno medievale cantato in occasione della loro festa liturgica il 29 giugno:

O Roma felix, quae tantorum principum/ es purpurata prezioso sanguine (Felice Roma, perché fosti imporporata dal prezioso sangue di così grandi Principi).