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DATI ISTAT

Pochi figli in Italia, è un problema etico

Le nascite continuano a calare, mentre aumenta la percentuale di quelle fuori dal matrimonio. Non è un problema economico, ecco perché...

Attualità 16_09_2011
culla vuota

L’Italia ha 150 anni e li dimostra tutti. Infatti ad andare a leggere il report stilato dall’Istat sulla natalità e fecondità nel Bel Paese e pubblicato mercoledì scorso, ci si rende conto che la nostra nazione sta diventando un geronconomio con sempre meno biberon e sempre più capelli bianchi.

I dati non lasciano spazi a dubbi. Innanzitutto c’è da registrare un calo nelle nascite: nel 2009 i nati erano 568.857, nel 2010 siamo scesi a 561.944. Rispetto poi al 2008 c’è un decremento di quasi 15.000 unità. Nel 1995 si era toccato il minimo storico con 526.064 nati, poi c’era stata la ripresa, ma negli ultimi anni si è verificato un cambio di rotta e il grafico della natalità sta di nuovo precipitando. Attualmente il tasso di natalità è fermo a 1,4 bambini per donna.


I nati poi da genitori entrambi italiani presto diventeranno quasi una rarità: 25.000 in meno in  due anni. Crescono invece il numero di bebè nati da coppie in cui almeno uno dei due non è italiano: sono più di 106.000. Insomma quasi uno su cinque dei figli che nascono in Italia ha un papà o una mamma stranieri (rumeni e marocchini ai primi due posti) e il trend come abbiamo visto è in crescita.

Perché dunque pochi fiocchi rosa o azzurri in Italia? Un luogocomunismo diffuso ha la risposta pronta: pochi soldi uguale pochi figli. Invece le cose non stanno così. Infatti gli stessi dati Istat ci dicono che i non italiani procreano di più e costoro in media hanno un reddito minore rispetto ai nostri connazionali. Ci sono poi alcuni studi compiuti dal ricercatore Adriaan Kalwij e dal centro scientifico Max-Planck-Institut für Demografische Forschung i quali dimostrano che gli incentivi economici provenienti dallo Stato per incoraggiare a far figli hanno una resa bassissima. Non sono perciò i venti della crisi economica a scoraggiare dal mettere al mondo i figli: durante la Grande depressione successiva al 1929 in America gli stili di vita anche in merito alle nascite non mutarono affatto.

Il problema invece è di carattere etico e psicologico. Da una parte il figlio viene spesso visto come completamento della propria persona. Corretto questo, ma l’inciampo sta nel fatto se tale fattore fosse ritenuto l’unico che dovrebbe muovere a cercare un figlio. In questa prospettiva il pargolo diviene solo una propaggine, seppur importante, di mamma e papà, e non viene considerato come un bene in sé, un dono in sé. Infatti seguendo questa logica il figlio arriverà solo al termine della costruzione del proprio io: prima un buon posto di lavoro, prima la tranquillità economica, prima la stabilità degli affetti, prima la casa, prima la consapevolezza di sentirsi maturi. E dopo tutti questi “prima” ecco che finalmente la donna verso i 31-32 anni (nel 6% dei casi la madre ha sui 40 anni) si sente pronta ad avere un bebè, perché percepisce “che mi manca qualcosa”.


Un’altra causa della denatalità è data dall’aborto. Mancano all’appello 117mila bambini (dati 2009). Senza poi contare tutti quegli aborti che perché clandestini o procurati con preparati farmacologici non possono essere conteggiati. Se al numero dei nati prima citato aggiungiamo questa folla silenziosa dei mai nati l’inverno demografico italico cesserebbe immediatamente.

Oltre all’aborto a dare man forte al fenomeno delle culle vuote è anche la contraccezione. Chi da ragazza ne ha fatto uso massiccio avrà maggiori difficoltà a concepire una volta che sposata o convivente vorrà avere un bambino. Gli effetti della contraccezione infatti non si arrestano immediatamente, ma perdurano nel tempo. A conferma di ciò si è calcolato che le coppie italiane riescono a dare alla luce poco più della metà dei figli desiderati.


L’Istat inoltre ci informa che i nati di coppie non sposate sono in aumento: oltre 134.000, cioè più del 23% del totale. Nel 2008 sfioravano i 113.000. Al Centro-Nord un bambino su quattro è figlio di genitori non coniugati. Perché questo fenomeno è in crescita? Sia perché il numero di coppie conviventi cresce e quindi in parallelo aumentano anche i figli nati in questo contesto: la sessualità è altra cosa rispetto alla vita matrimoniale, così si pensa. Sia perché il procrastinare il tempo della gravidanza porta per forza di cose ad anticipare questa al momento delle nozze.

A questo riguardo lo scorso mese il Brookings Institute di Washington D.C. ha pubblicato uno studio dal titolo “The Marginalization of Marriage in Middle America”. Questa ricerca afferma che le donne conviventi fanno comunque figli perché l’attesa di una condizione migliore necessaria per sposarsi potrebbe non arrivare mai e quindi, dato che l’orologio biologico galoppa e non si arresta di un minuto, è bene approfittare del tempo presente.

Un altro motivo dell’aumento dei figli di coppie conviventi deve essere ricercato nel fatto che l’istituto del matrimonio pare a molti giovani un vecchio arnese buono solo come curioso complemento d’arredo alla propria vita a due. Il matrimonio non è più centrale per la coppia, non è più un punto di arrivo e di partenza. Ora sono centrali la relazione affettiva e le proprie esigenze: il matrimonio è percepito come guscio vuoto, struttura formal-burocratica. Poco importa quindi che il figlio nasca all’interno di un legame matrimoniale o fuori di esso. L’importante è l’amore di mamma e papà, si dice, dimentichi che tra le altre cose solo il rapporto di coniugio può tutelare il figlio appieno dal punto di vista giuridico e psicologico con tutta una serie di garanzie che la convivenza - che per sua natura è ad interim – non può fornire.

In particolare in merito all’aspetto pedagogico lo statunitense National Marriage Project ha da poco pubblicato la terza edizione del rapporto “Why Marriage Matters: Thirty Conclusions from the Social Sciences”, in cui si afferma che l’instabilità della convivenza riverbera sui figli alcuni effetti negativi non di poco conto. Ad esempio questi ultimi hanno una probabilità tre volte superiore di subire abusi rispetto ai figli di genitori sposati, sono più propensi all’uso di droghe, vanno peggio a scuola e scadono con maggiore frequenza in comportamenti violenti.